domenica 27 aprile 2014

Tafazzi sempre di casa

Pubblicato il 26 aprile 2014, da Politica Italiana
Paolo Giarretta 

Neppure Renzi riesce a cambiare le cattive abitudini della politica italiana e a far superare l’istinto tafazzista della sinistra? Abbiamo avuto Prodi e l’abbiamo buttato, abbiamo avuto Veltroni e l’abbiamo buttato e ora anche Renzi è alle prese con l’eterno fare e disfare, con l’idea dell’immobilismo?
Sono solo piccole crepe ma intanto già hanno effetto sui sondaggi ed è cessata la crescita del PD. Io penso perché sta tornando una immagine del solito partito, che decide una cosa e poi non la mantiene, che apre infinite discussioni, fatte anche di buoni motivi, ma poi di protagonismi individuali, di rese dei conti interne. Vedo con preoccupazione che una parte dei nostri gruppi parlamentari non ha ancora capito quanto sia cambiato il mondo e quanto sia in pericolo la tenuta democratica del paese. Pensano sempre che vi sia tempo, che si possa spaccare il capello in quattro, non capiscono che un paese sfiduciato ha bisogno di risultati immediati. Magari imperfetti ma tangibili.
Nonostante le inconcludenze nella vita parlamentare, l’incapacità di fare una opposizione costruttiva, la deriva padronale, il M5S conserva un elevato consenso tra i cittadini italiani. Unendo elettori di sinistra e di destra. Un populismo a 360 gradi. Renzi sta provando, e ci sta riuscendo, a reintrodurre una fiducia tra popolo e istituzioni, per fare le cose e non limitarsi a sputare su tutto e su tutti. Ma sembra che non vi sia piena consapevolezza in tutti di quanto deteriorato sia il rapporto.
Prendiamo la questione del Senato. Intendiamoci: nel merito esistono diversi modelli nelle democrazie europee, senati elettivi e senati con elezioni di secondo grado e non è che gli uni siano meno democratici degli altri. Non è una eresia proporre come ha fatto il Governo un Senato eletto da “grandi elettori” ed è sostenibile che possa esistere un Senato con i compiti ridotti ma essenziali per il buon funzionamento della democrazia parlamentare che conserva un rapporto di mandato elettorale con il popolo, magari prevedendo le elezioni contestualmente a quelle dei consigli regionali.
Il punto è un altro. E’ che dietro queste posizioni si manifestano due resistenze. Quella politica che non vuole che Renzi abbia successo. Comprensibile in Berlusconi: partito in caduta verticale, comprende che il successo di Renzi sulle riforme lo rafforzerebbe ancora di più. Non comprensibile e politicamente criminale la resistenza interna, di chi non comprende l’occasione unica che offre Renzi al PD: riaprire la fiducia, ridare al partito quella centralità nell’opinione pubblica che già aveva avuto con Veltroni e che è stata buttata via per ostinati conservatorismi.
Poi c’è un’altra resistenza, più nascosta ma comunque robusta. Quella delle grandi burocrazie dello Stato che Renzi ha incominciato ad attaccare. Che ho conosciuto bene e che trovano sempre in Parlamento delle alleanze. Grandi burocrati che sussurrano all’orecchio dei senatori che bisogna difendere la dignità del Senato e che trovano sempre orecchi pronti ad ascoltare, più pronti ad ascoltare il palazzo che il paese. Purtroppo anche in casa nostra. Ricordo molto bene nell’ultima legislatura la sordità di nostri senatori (non a caso firmatari ora del ddl Chiti) sul tema della riduzione dei costi del Senato, della creazione di servizi unificati tra Camera e Senato, ecc. La letteraccia che ricevetti proprio da Vannino Chiti perché avevo osato sostenere che i costi per le segreterie particolari delle Presidenze e vicepresidenze del Senato erano vergognosi.
Questa è la battaglia in corso e mi meraviglio che non la si voglia capire, che si pensi appunto che ci sia ancora spazio per i giochi della mala politica: temporeggiare, sgambettare, conservare.
Bisogna ora prendere una iniziativa: si facciano le mediazioni necessarie (Renzi lo sa e ha dimostrato di possedere anche questa abilità) ma al giudizio degli elettori del 25 maggio occorre portare risultati. Gli ottanta euro ci sono ora occorre dimostrare che la politica è capace di riformarsi.

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