sabato 26 aprile 2014

Quadrare il cerchio, la sfida di Francesco

Franco Cardini 
Europa  

Salvare il Vaticano II e al tempo stesso far tacere le voci critiche; mostrare la Chiesa del XXI secolo, ferma nel proseguire la linea del rinnovamento e dell’apertura indicata dal concilio
Per i cattolici, la canonizzazione è un procedimento giuridico e un atto di fede. Dichiarare qualcuno santo vuol dire proclamare la certezza che egli, sia pure con gli errori e le debolezze di qualunque essere umano, ha «vissuto in modo eroico le virtù cristiane»: e che di tale pratica di virtù ha dato prove concrete, che hanno lasciato il segno.
Tale realtà va sottoposta a una vera e propria verifica processuale, con accurata escussione di prove e di testimoni.
Gli Atti di una canonizzazione, preceduta da fasi di verifica preliminare (al termine di ciascuna delle quali il candidato santo viene proclamato “Venerabile”, “Servo di Dio”, “Beato”), riempiono di solito spessi volumi. Al termine di questo laborioso processo, che può essere anche molto lungo (Francesco d’Assisi venne proclamato santo solo due anni dopo la morte; per far santa Giovanna d’Arco, fatta ardere viva da un tribunale inquisitoriale come eretica, c’è voluto quasi mezzo millennio), nessuno che si dica cattolico può dubitare che chi sia stato canonizzato sia davvero “santo”, cioè viva spiritualmente in eterna grazia di Dio (“in Paradiso”, come si usa dire). La canonizzazione dei santi è uno degli in verità pochissimi casi nei quali la Chiesa proclama la propria infallibilità come speciale prerogativa concessale da Dio.
In altri termini, la canonizzazione è un fatto rigorosamente interno alla Chiesa cattolica, che si può intendere solo iuxta propria principia. Obiettare che tale o tale santo avrebbe motivi storici o di altro tipo per non sembrare poi troppo esemplare, è cosa tanto vana quanto inutile. Durante il processo di canonizzazione, chiunque può addurre prove – e, se è cattolico, avendone deve farlo – che possano inficiare il processo; il farlo dopo non ha senso, in quanto la sentenza garantita dall’infallibilità è per sua natura inappellabile; il sollevar dubbi alla luce di altre valutazioni o di princìpi che non sono quelli della Chiesa significa mischiare elementi culturalmente eterogeni fra loro.
Ciò premesso, non ha senso continuar a chiederci, ora che le causa di canonizzazione di Angelo Roncalli e di Karol Wojtyła sono concluse, se l’uno o l’altro dei due pontefici abbia davvero meritato la gloria degli altari o se si sia trattato di una scelta pregiudiziale e unilaterale da parte della Chiesa. La prima domanda, sarebbe ingenua; la seconda, tautologica.
Ha invece senso, eccome, chiedersi che cosa queste due canonizzazioni contemporanee significano in questo particolare momento della vita della Chiesa, dal momento che si tratta di due papi entrambi molto amati e popolari, entrambi fortemente carismatici, molto diversi però fra loro non tanto e non solo sotto il profilo caratteriale, bensì anche sotto quello della loro funzione nella storia della Chiesa.
Giovanni XXIII, un papa dotato di una vasta esperienza diplomatica – era stato nunzio in due situazioni difficili, nella Turchia kemalista e nella Francia di Vichy – è il pontefice “progressista” che ha “aperto la Chiesa al mondo” con il concilio Vaticano II, correndo il rischio di quello che Jacques Maritain definì «l’inginocchiarsi della chiesa dinanzi al mondo», cioè dinanzi alla Modernità laica e agnostica, cercando con essa il colloquio.
Giovanni Paolo II, un operaio che aveva lottato contro il nazismo e un vescovo che si era impegnato in un difficile braccio di ferro con le autorità comuniste della sua Polonia, aveva fama di essere “socialmente avanzato” ma non “progressista” (il che non è la stessa cosa). Appena arrivato al soglio pontificio, avviò una politica segnata da tratti gerarchicamente e liturgicamente tradizionalisti, avversò in America latina la “teologia della Liberazione” e sembrò frenare per più versi l’applicazione dei decreti del Vaticano II.
Papa Francesco è a sua volta giunto al soglio pontificio cinto dalla fama di avere decise simpatie tradizionaliste, quindi ispirate a cautela nei confronti di quelle che – del resto alcuni decenni fa – sembravano le “innovazioni” conciliari; ma era noto anche per un’apertura sociale che non solo ha confermato, ma che è addirittura diventata, specie nei confronti degli “ultimi della terra”, il sigillo del suo pontificato vòlto tutto, e con grande decisione, alla moralizzazione della vita dei vertici ecclesiali da un lato e alla lotta contro quella che splendidamente egli stesso ha definito “la globalizzazione dell’indifferenza” dall’altro.
L’elezione di papa Francesco è avvenuta in un contesto che lasciava intravedere una forte spaccatura verticale all’interno dell’alta gerarchia della Chiesa; ma proprio per questo un papato “debole”, attendista, non avrebbe fatto che peggiorare la situazione. Papa Bergoglio ha obbligato la gerarchia e i fedeli a scegliere, a dichiarare da che parte ciascun cattolico vuole stare. Ma egli si è anche impegnato a dimostrare che questa non è la Chiesa che lui ha voluto, bensì la Chiesa tout court, come dev’essere e come non può essere altrimenti. Per questo, le due canonizzazioni complementari di due papi che nella visione comune sono considerati “ai due estremi opposti” della testimonianza cattolica e della funzione pontificia gli erano indispensabili.
È una sfida, che somiglia molto alla quadratura di un cerchio. Salvare il Vaticano II e al tempo stesso far tacere (e non semplicemente ordinare che tacciano) le voci critiche nei confronti di esso; mostrare una Chiesa di adesso, la Chiesa del XXI secolo, ferma nel proseguire la linea del rinnovamento e dell’apertura indicata dal concilio e al tempo stesso fedele a una tradizione quasi bimillenaria che indica la strada del confronto con “il mondo”, ma non dell’acquiescenza nei confronti del suo spirito. Si è detto spesso, in questi mesi, che l’unico modo per legittimare una simile quadratura del cerchio sarebbe la richiesta di una nuova esplicita verifica e di un nuovo impegno della gerarchia su una strada chiaramente, limpidamente, indicata e accettata.
Un nuovo concilio. Che si prospetta d’altronde anche come un luogo nel quale istanze inconciliabili potrebbero affiorare. Un’occasione imperdibile e un inevitabile rischio. Questa appare, oggi, la sfida di questo gesuita arrivato “quasi dalla fine del mondo”, che ha ridotto al minimo i segni di solennità e di autorità del suo ufficio e che, in un mondo segnato come non mai dalla barbarie della sperequazione sociale e dallo spettacolo intollerabile del confronto tra l’opulenza dei pochissimi e la miseria dei troppi, ingiuste entrambe, ha scelto di chiamarsi come un Povero di otto secoli fa.

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