lunedì 7 aprile 2014

Le vacche sacre e il Pil. Le divinità dell’India che vota per la svolta.


Corriere della Sera del 07/04/14

Danilo Taino

DAL NOSTRO INVIATO
NEW DELHI — Non bisogna lasciarsi ingannare dalle vacche sacre. Ieri, vicino alla Connaught Place di New Delhi, una aveva infilato le corna in un cartellone con la faccia barbuta di Narendra Modi, l’uomo avviato a diventare il prossimo primo ministro indiano. Non riusciva a liberarsi. E non sapeva, la poveretta, di essere diventata parte della campagna elettorale. Che proprio Modi, candidato in grande vantaggio nelle elezioni per le quali la più grande democrazia del pianeta inizia a votare oggi, è il suo difensore irremovibile, che non la lascerà mai sola. L’ultimo tema che il leader nazionalista indù ha sollevato per attaccare il governo, per dire, è l’esportazione di carne bovina, in pieno boom nonostante il divieto (teorico) di macellare le vacche: una pratica che Modi definisce anti-indù, chiama «rivoluzione rosa» e contro la quale invoca un voto per fermare quella che ritiene essere una continua spinta contro i valori della Nazione operata da dieci anni di governo guidato dal partito del Congresso, laico e statalista.

In senso stretto, Modi ha ragione. Il ministero dell’Alimentazione ha ammesso che l’India è diventata il principale esportatore di carne al mondo, 1,89 milioni di tonnellate nell’ultimo anno, il 50% in più in un quinquennio. Per lo più si tratta di pezzi di bovino che escono con l’etichetta di bufalo e tornano a essere pezzi di vacca quando arrivano nei macelli del vicino Bangladesh, Paese musulmano non turbato dalla questione. Il problema è che fare diventare il commercio di carne un tema elettorale forte è sembrato a molti commentatori mettere al centro del dibattito questioni di identità culturale e religiosa — la sacralità delle vacche che danno latte e sono care alle divinità indù — allo scopo di polarizzare lo scontro, di stimolare il nazionalismo indù. Ed è qui che occorre non farsi ingannare. La polarizzazione ideologica è in effetti alta, la più alta di sempre in queste elezioni (814 milioni di indiani chiamati alle urne), ma non è tutto, anzi: di base, c’è un’India moderna, giovane, istruita che vuole parlare di crescita, di opportunità, di lotta alla povertà e alla violenza contro le donne e per la quale la «rivoluzione rosa» arriva molto in basso nella lista delle priorità. Una nuova India che pensa, anch’essa, che queste elezioni siano uno spartiacque, le più importanti di sempre, ma per altri motivi. È che la posta in gioco è tra le più alte per tutti. Dopo dieci anni di governo di coalizione, il partito del Congresso — gestito sin dall’Indipendenza del 1947 dalla dinastia Nehru-Gandhi — quasi certamente subirà una sconfitta storica, che potrebbe spingerlo verso il declino e chiudere l’era del dominio della famiglia più potente dell’India moderna. L’ultimo sondaggio, ieri, dava il Bjp, il partito di Modi, e la coalizione che si è costituita attorno a esso possibili vincitori di 246 seggi nel prossimo parlamento: non lontani dalla maggioranza assoluta di 272, facilmente raggiungibile grazie all’alleanza con qualche partito locale. Il Congresso rischia invece di dimezzare i seggi, a meno di cento: una sconfitta che metterebbe fuori gioco l’ultimo dei Gandhi, Rahul, figlio di Sonia, dell’ex primo ministro Rajiv, nipote di Indira Gandhi, pronipote di Jawaharlal Nehru. Non solo: nell’alternativa tra Rahul e Modi — tra il figlio della dinastia e l’ex venditore di tè — l’India deve scegliere quale strada prendere, in economia e nella società: il paternalismo dello Stato del primo o l’apertura ai mercati del secondo.

La retorica e la gestualità della campagna elettorale, dunque, prendono le forme e i temi più delicati e li alzano a simboli. Da un lato le vacche sacre, la difesa dei templi indù dalla presunta invadenza musulmana, l’attacco a Sonia Gandhi, presidente del Congresso, in quanto italiana e dunque protettrice dei due marò trattenuti a Delhi. Sul lato opposto, le accuse a Modi di dividere il Paese per linee religiose e tribali, di non avere difeso i musulmani in un massacro del 2002 nello Stato del Gujarat di cui era già chief minister, di portare l’India verso il conflitto nazionalista interno e forse esterno con il vicino Pakistan. La realtà, però, è che questo parlare di vacche sacre è la coda di un Paese che è già cambiato e cambierà ancora. I giovani indiani istruiti, urbani, classe media, hi-tech, accanto ai Ganesh e ai Shiva hanno elevato una nuova divinità, il Pil, l’aumento del prodotto lordo. Di gran lunga il primo pensiero di questi elettori, almeno un terzo di quelli totali, è l’economia, negli ultimi tempi caduta a un tasso di crescita del 5%, troppo basso per assorbire l’aumento della popolazione. Ed è sull’economia, su dieci anni di riforme non fatte, di corruzione lasciata correre, di burocrazia oppressiva che il governo del Congresso verrà giudicato e condannato. E che Modi — visto da ricchi e da poveri come un uomo che fa e favorisce la crescita al di là delle divisioni ideologiche che provoca — verrà con ogni probabilità eletto primo ministro. I risultati si sapranno a metà maggio: si inizia a votare oggi, nello Stato nord-orientale dell’Assam, e le elezioni nelle 543 circoscrizioni andranno avanti, in nove giornate, in 35 tra Stati e territori, per oltre un mese. Mentre l’onda favorevole a Modi si gonfia di giorno in giorno. Garantisce crescita, lavoro, istruzione, strade e forse tempi duri per i musulmani. Vedremo. In più, per non rischiare, promette un santuario vicino a Porbandar, la città natale di Mohandas Gandhi: ospiterà diecimila vacche, il Mahatma le venerava.



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