lunedì 28 aprile 2014

Il patto tra palestinesi in un Medio Oriente che fa a meno dell’America

Guido Moltedo 
Europa  

L'intesa tra al Fatah e Hamas ha un paio di precedenti negativi ma questa volta il quadro mediorientale è diverso. Gli Stati Uniti contano meno e i principali player della regione si stanno riposizionando
Dicono, israeliani e americani, che l’intesa raggiunta mercoledì scorso tra l’ala politica laica e l’ala politica religiosa del movimento palestinese li ha colti di sorpresa. Crederci, che siano stati spiazzati, è difficile. Se è così, è semmai la loro ingenuità politica che sorprende. Chiedersi se sia vero che non l’avessero previsto, che non l’avessero previsto neppure i servizi segreti israeliani, come hanno detto i loro capi a Haaretz, è comunque secondario. La principale domanda riguarda la consistenza reale e la durata dell’intesa. Al Fatah, partito guida dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, e Hamas non comunicano tra loro dal 2007, quando la fazione islamista assunse il controllo di Gaza con un violento colpo di mano, costringendo all’esilio i dirigenti dell’Olp e sbattendo in prigione quelli di loro che erano rimasti nella Striscia. Nel 2011, al Cairo, ci fu un tentativo di riconciliazione. Fallito. Nel 2102 ce ne fu un altro a Doha. Anch’esso fallito. I contenuti delle due intese finite male erano grosso modo gli stessi del protocollo concordato a Gaza nei giorni scorsi. Tra questi la costituzione di un governo “tecnico” a termine, per il tempo necessario, alcuni mesi, per preparare nuove elezioni politiche.
In realtà, il richiamo ai due precedenti insuccessi è fuorviante, non implica che anche questa volta il “patto di unità” si debba rivelare un miraggio, con grande beffa per i palestinesi di Gaza, Cigiordania e dei campi libanesi e giordani scesi in strada a festeggiare entusiasti l’accordo siglato nella residenza di Ismail Haniyeh, il capo del governo di Gaza. Il conflitto israelo-palestinese e gli equilibri interni alla realtà politica palestinese vanno sempre visti in relazione con lo scenario mediorientale più ampio, in un continuo gioco di influenza reciproca. Rispetto al 2011 e al 2012 la situazione mediorientale è cambiata. Vale la pena osservare che nella regione c’è un nuovo muoversi delle cose, c’è un intrecciarsi di situazioni che costituisce il retroscena dell’intesa e al tempo stesso ne indica i possibili sviluppi. Tutto fa pensare che questa volta il quadro complessivo renda più plausibile la tenuta del “patto”. In ogni caso, è probabile che si sia di fronte a un nuovo capitolo della vicenda palestinese, con al centro anche la definizione della leadership futura.
Restando all’ambito dell’accordo, va innanzitutto tenuto presente il ruolo dell’Egitto. È stato giustamente notato che uno degli artefici dell’incontro di Gaza e membro influente dell’ufficio politico di Hamas, Mousa Abu Marzouk, residente al Cairo, ha avuto il beneplacito dell’uomo forte egiziano, Abdel Fattah al Sisi per prendervi parte. Come si sa i Fratelli Musulmani e gli stessi dirigenti di Hamas in Egitto – i due movimenti sono legati tra loro – sono sottoposti a una dura repressione da parte del regime di al Sisi. Nei giorni scorsi, inoltre, lo stesso al Sisi aveva avuto un colloquio con Mohammad Dahlan, personaggio di grande potere tra i palestinesi di Cisgiordania. 52 anni, conosciuto anche come Abu Fadi, a lungo responsabile dei servizi segreti palestinesi, è in aperta rotta di collisione con Abu Mazen e la sua cerchia, che accusa d’incapacità debolezza, corruzione e nepotismo. Ricambiato con accuse di collaborazione con Israele e perfino di essere dietro la morte di Arafat, fino all’espulsione da al Fatah. Dahlan è popolare anche nei campi palestinesi in Giordania e in Libano, ha buone relazioni con gli Emirati Arabi, dove vive in esilio, e con l’Egitto, che vede in lui, data la sua popolarità anche a Gaza, un contrappeso al potere di Hamas. Di recente sua moglie, Jalila, in visita nella Striscia, ha annunciato in un’intervista a al Monitor l’intenzione di Dahlan di candidarsi alle presidenziali, o nelle liste di al Fatah o come indipendente.
L’unico in grado di tener testa a Dahlan, anzi di sconfiggerlo, per ammissione stessa di Jalila, sarebbe Marwan Barghouti, il Mandela palestinese nelle carceri israeliane dal 15 aprile 2002. Nonostante i dodici anni trascorsi in galera, Barghouti è il politico più popolare in Palestina e, secondo tutti i sondaggi, batterebbe sia Abu Abbas sia Ismail Haniyeh in un’eventuale corsa presidenziale. È considerato l’unico in grado di negoziare un accordo con Israele, farlo accettare al suo popolo, unire le fazioni palestinesi e avviare un processo di “verità e riconciliazione” in un paese indipendente. Ma gli israeliani saranno abbastanza lungimiranti da consentirgli di tornare libero e attivo?
Egitto, Israele, Turchia nella partita
Come si vede, Egitto e Israele, direttamente o indirettamente, possono influire su quanto accade nel perimetro del potere palestinese. E non sono i soli. La Turchia, l’altro grande player regionale, ha lavorato negli ultimi anni per avere voce in capitolo in Medio Oriente, sostenendo i Fratelli Musulmani e Hamas, mentre, nel frattempo, si adoperava per il crollo del regime di Assad. Gli eventi sono andati nella direzione opposta rispetto a quella auspicata da Recep Tayyip Erdogan. Ma il premier turco non ha smesso di “fare politica” nella regione. Con Israele sembra esserci volontà di tornare a relazioni normali, riprendendo la trattativa sul risarcimento da parte israeliana delle famiglie delle vittime del raid contro gli attivisti turchi di Mavi Marmara, un episodio che aveva portato alla rottura tra i due paesi. Intanto Ankara non ha fatto mancare il suo pieno sostegno al “patto di unità” tra palestinesi.
Su un altro versante, quello iraniano, si registrano importanti novità, sia sul fronte della questione nucleare sia su quello dei rapporti con i sauditi e dunque con il mondo sunnita. Il governo di Hassan Rouhani procede lungo il suo percorso riformista, tenendo fede agli impegni assunti sul nucleare (anche, tra l’altro, facendo fuori dalla squadra dei negoziatori quelli che remano contro) e, attraverso l’ayatollah Hasheni Rafsanjiani, ha aperto un’inedita linea di dialogo con Riyadh. L’Iran è stato uno dei sostenitori di Hamas, ma lo scoppio del conflitto in Siria, ha messo in discussione la relazione tra il regime sciita e il movimento sunnita.
Il declino americano nel puzzle mediorientale
I diversi pezzi del mosaico mediorientale, tutti per aria dopo la guerra in Iraq, peraltro non chiusa, e con il conflitto in corso in Siria, si stanno riposizionando, e in questo fermento si ripropone la questione palestinese, con i suoi complessi intrecci con i diversi centri di potere nell’area. Il fermento nella regione è anche legato all’evidente e crescente disinvestimento americano in Medio Oriente, dettato sia dalla crisi economica sia dal restringimento delle spese militari sia dalla crescente capacità energetica dell’America, diventato paese esportatore e non più strategicamente dipendente dal petrolio mediorientale. C’è un evidente scollamento perfino nella relazione speciale tra Usa e Israele, come testimonia – su un altro scacchiere – la neutralità israeliana sulla questione ucraina.
L’insuccesso dei tentativi di John Kerry, tesi a rilanciare il processo di pace israelo-palestinese, va visto anche in quest’ottica. L’America non è più considerata, da Israele stessa, un giocatore decisivo in Medio Oriente. Anche la riluttanza a immischiarsi nel conflitto siriano è stata vista come un sintomo inequivocabile, è considerata la spia di questa nuova fase di crescente disimpegno. Ed è un bene. Forse è davvero l’inizio di un periodo nel quale i paesi, i popoli, i governi della regione si assumano pienamente la responsabilità del destino loro e della regione, cercando la via del dialogo, dopo una lunga e travagliata storia di conflitti che hanno impoverito tutti. Lo stesso patto di unità tra i palestinesi è un segno in quella direzione.
Il 24 aprile scorso, festeggiando i suoi novant’anni, l’icona della sinistra israeliana, Uri Avneri, si è detto ottimista sul futuro del suo paese e della regione. Parlando con Haaretz, ha detto: “Avverrà un miracolo. Potrebbe avvenire in modo duro, forse preceduto da una catastrofe. La coscienza dell’opinione pubblica israeliana deve attraversare un cambiamento. Come quello che accadde quando Sadat scese dell’aeroplano (arrivando in Israele nel 1977). Questa è l’essenza del miracolo. Prima o poi i due popoli dovranno andare d’accordo”.

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