domenica 6 aprile 2014

Ruanda 1994-2014 
Dove il genocidio è una ferita aperta.


Corriere della Sera del 05/04/14
Tomaso Clavarino

KIGALI — Il passo è incerto, le stampelle scivolano sul terreno sconnesso, le gambe fanno fatica ad andare avanti. Prisca tuttavia rimane impassibile, continua a camminare come se nulla fosse, a testa alta, senza nemmeno una smorfia di fastidio sul viso. Sono ormai vent’anni che convive con due protesi di legno e stoffa, cioè da quando, ad appena quattro anni, ha messo un piede su una mina e le sue gambe sono saltate in aria.

Era il maggio del 1994 e il Ruanda era nel pieno di quel Genocidio che in tre mesi ha fatto quasi un milione di vittime. Uccisi a colpi di machete, a bastonate, solo raramente con armi da fuoco. Hutu contro Tutsi, amici che si sono trasformati in carnefici, vicini di casa diventati brutali assassini. «Mi ricordo che era mattino presto, sono arrivati come dei pazzi, hanno sfondato la porta di casa, hanno preso i miei genitori, mia sorella maggiore, li hanno portati nella chiesa di Shyorongi — racconta Prisca trattenendo a fatica le lacrime —. E lì li hanno uccisi, a colpi di machete, come bestie. Poi li hanno buttati nel fiume Nyabarongo». Lei è riuscita a scappare, con la sorella minore, e ha iniziato a correre per i campi. Fino a quando non ha calpestato una mina posizionata lì dalle milizie Hutu Interahamwe. «Sono riuscita a salvarmi per miracolo ma la mia vita è stata rovinata. Ho dovuto anche lasciare la casa di famiglia perché i vicini, quelli che mi hanno sterminato la famiglia, sono tornati ad abitare qui a fianco». Uno degli effetti della politica di riconciliazione fortemente voluta dal presidente Paul Kagame. Una politica che ha dato i suoi frutti stabilizzando il Paese e aprendolo a investimenti stranieri (il Ruanda ha un tasso di crescita medio del 8% negli ultimi cinque anni) ma che ha solo coperto, senza eliminarle, le forti tensioni che permangono nel Paese.

Il caso di Prisca non è isolato, sono migliaia le persone che sono riuscite a sopravvivere alla mattanza di venti anni fa ma che hanno dovuto subire amputazioni e mutilazioni che ne hanno segnato in maniera indelebile il fisico oltre che la mente. Come Dassan, 34 anni, quattordicenne all’epoca del Genocidio, che durante quei tre mesi di follia e violenza collettiva ha perso un avambraccio, oltre che l’intera famiglia. «Un gruppo di Interahamwe è arrivato una sera nel nostro villaggio, qui al confine nord di Kigali — ricorda seduto su di una poltrona nella nuova casa che si è costruito da solo —. Hanno radunato tutti i Tutsi nel campo sportivo, in cerchio, uno contro l’altro. Poi hanno iniziato a picchiare e tagliare, con machete, pietre e bastoni di legno. Uno dopo l’altro sono morti tutti. Io ho cercato di proteggermi con il braccio sinistro. Loro colpivano, colpivano, fino a quando sono svenuto. Devono aver pensato che fossi morto e mi hanno lasciato lì. Quando mi sono svegliato mi sono accorto di non avere più l’avambraccio, mi sono trascinato fino alla chiesa. Il prete, del Burundi, mi ha aperto, mi ha disinfettato e portato nel primo posto medico. Così mi sono salvato».

Dassan è stato fortunato perché ha trovato un prete che ha deciso di salvargli la vita, non come le migliaia di persone chiuse dentro la chiesa di Nyamata fatta buttare giù a colpi di bulldozer dal parroco Hutu. Fils, Martha, Adeline, Beatrice sono solo alcuni nomi di altre persone che sono riuscite a salvarsi ma che porteranno per tutta la vita i segni di quella che è stata una delle pagine più atroci e violente che la Storia abbia mai vissuto. Persone che in un Paese rivolto verso il futuro, che tenta di dimenticare il passato per ricostruire una società unita, rimangono e rimarranno l’immagine di un passato terrificante che potrebbe sempre tornare.

Ngaboy, un ex soldato Tutsi del «Rwanda Patriotic Front», che ha perso un occhio e due braccia nel corso degli scontri del 1994 lo dice a bassa voce: «Il governo sta facendo molto per riconciliare il Paese, ma sarà un lavoro lungo, doloroso, e non è detto che andrà in porto. Stanno forzando un processo che dev’essere naturale, spontaneo, con il rischio di soffocare tensioni latenti che, prima o poi, potrebbero venire alla luce. Il Ruanda è come una pentola a pressione, basta una scintilla di troppo per farlo esplodere».

Un’affermazione che trova d’accordo Eugenie, 29 anni, che vive da sola in una casa vicino a Rwamagana, nell’est del Paese. Viso dai lineamenti delicati, occhi profondi, sguardo fiero ma sofferente, Eugenie ha subito l’amputazione di entrambe le gambe nel luglio del 1994. Scappata da casa, dopo aver visto la famiglia massacrata, si è nascosta per una settimana tra i papiri, con le gambe nell’acqua fino all’inguine. Quando l’hanno trovata non riusciva a camminare. Le gambe erano necrotizzate e non hanno potuto far altro che amputargliele. «In questi venti anni ho vissuto da sola, con l’aiuto dei pochi amici rimasti ma nel silenzio del governo che, per quelli come me, sopravvissuti ma con enormi problemi, ha fatto ben poco — spiega Eugenie —. Nessuna possibilità di trovare un lavoro, nessuna opportunità per provare a ricominciare una vita dignitosa. Sono condannata a non muovermi da questa casa di terra e lamiere. Le ferite del Genocidio per molti non si sono ancora richiuse, sono aperte, profonde». Come per Angelique che con naturalezza, seduta in un giardino nel quartiere di Remera a Kigali, dice: «Perdonare? Prima di perdonare qualcuno è necessario che quel qualcuno venga a chiedere perdono. Nessuno di quelli che hanno ucciso mio padre e mia madre mi ha mai chiesto perdono».




 


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