domenica 6 aprile 2014

Il Pd e la sfida alla sinistra intransigente.


Corriere della Sera del 05/04/14

Più o meno da che esiste, la sinistra italiana ha visto il prevalere delle sue correnti più estreme, che si chiamassero intransigenti, massimaliste o in altro modo ancora. Ciò è avvenuto per la forza di queste ultime, certo, ma anche per l’incapacità o il timore dei «riformisti» a scontrarsi davvero con i «rivoluzionari». Nell’Italia repubblicana questa incapacità doveva manifestarsi anche all’interno del maggior partito della sinistra, il Pci, che se da un lato ereditava l’insediamento sociale (cooperative, sindacati, camere del lavoro) e molte delle Politiche del vecchio riformismo socialista, dall’altro non riuscì mai a considerare la parola stessa riformismo altro che come un termine negativo.
La decisa risposta di Renzi (sul Corriere di lunedì scorso) all’appello di Rodotà, Zagrebelsky e altri intellettuali contro una presunta «svolta autoritaria», nonché il duro articolo che il direttore di Europa , Stefano Menichini, ha dedicato ai firmatari di quel testo, indicano che forse l’antico timore dei riformisti a individuare negli intransigenti il proprio avversario ha fatto il suo tempo. È abbastanza evidente, infatti, che le prese di posizione degli ayatollah della Carta (così li ha definiti il costituzionalista Francesco Clementi), come – prima ancora – quelle di «girotondi», «popolo viola», intellettuali «indignati», pronti a gridare al pericolo autoritario ad ogni ipotesi di riforma della Costituzione, rappresentano da qualche anno la nuova forma assunta da quel vecchio male della sinistra italiana cui si faceva riferimento. Un male consistente nell’incapacità delle correnti riformiste d’uscire dall’angolo in cui vengono costrette dalle correnti più radicali. Ma adesso – ecco la novità – il nuovo gruppo dirigente del Pd sembra consapevole della necessità di separare i propri destini da quelli di «una sinistra intellettuale e politica – ha scritto Menichini – ormai portatrice (…) d’intolleranza, alterigia e presunzione».

Al di là del piglio decisionista e degli atteggiamenti forse un po’ troppo da smargiasso del presidente Renzi, la sua sfida riformista si lega alla sua provenienza culturale e politica, del tutto diversa rispetto a chi ha alle spalle la tradizione comunista. A Renzi risulta del tutto estraneo, infatti, quel mito dell’unità della sinistra che caratterizzava la vecchia tradizione socialista e poi quella comunista in virtù dell’imprinting marxista. Per il marxismo, essendo una la classe di riferimento (il proletariato), uno doveva essere il partito della sinistra. Tutte cose che Renzi avrà tutt’al più studiato in qualche esame universitario di storia.

È probabile, in ogni caso, che lo scontro con le posizioni della sinistra intellettuale più radicale egli lo abbia espressamente cercato. Si pensi solo al fatto d’invitare l’arcinemico Berlusconi al Nazareno; un invito che una parte del suo stesso partito ha vissuto alla stregua di una provocazione. Ma, appunto, qui sta anche uno dei due grandi rischi di fronte ai quali si trova ora la battaglia riformista del presidente del Consiglio. Il guanto di sfida lanciato a una sinistra intellettuale intransigente, infatti, è anche un guanto di sfida lanciato a una parte, forse maggioritaria, del suo partito. Di un partito che, non a caso, resta fedele al ricordo e al mito di Enrico Berlinguer, un leader di grande carisma ma che certamente non fu per nulla riformista. Nonostante le nostalgiche rievocazioni a cui abbiamo assistito ancora di recente tendano a farlo dimenticare, Berlinguer spinse anzi gli iscritti e gli elettori del suo partito verso una «deriva identitaria e solipsistica» – come scrisse dieci anni fa Piero Fassino in un suo libro – basata sulla rivendicazione della «diversità» comunista. Il secondo rischio che minaccia la sfida riformista di Renzi è sotto gli occhi di tutti. Ha a che fare con la possibilità che le riforme da lui annunciate, a cominciare dal monocameralismo e dalla riforma del titolo V della Costituzione, non riescano ad andare in porto. E, com’è evidente, un riformismo senza riforme non è cosa possibile.

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