domenica 24 novembre 2013

UN PASSO INDIETRO PER RILANCIARE IL PD

FABRIZIO BARCA

Caro direttore «Una parte della nostra opinione pubblica pensa che sia avvenuto qualcosa che abbia a che fare con un’assenza di imparzialità. … si è alzata la soglia della tolleranza del Paese verso l’assenza di rigore, di imparzialità e di sobrietà ». Sono queste le parole che lo scorso 20 novembre il segretario del Pd Guglielmo Epifani ha sentito il bisogno di dire alla Camera dei deputati per qualificare il “no” alla mozione di sfiducia sul ministro Anna Maria Cancellieri.
Sono parole che potrebbero riguardare anche l’assalto dello stesso giorno al mio Circolo Pd dei Giubbonari in Roma e il messaggio «dovreste essere in carcere o a penzolare a testa in giù» che lo ha accompagnato. O i gesti e i pensieri di centinaia di migliaia di cittadini che leggono le vicende e le decisioni pubbliche quotidiane, qualunque esse siano, come un “loro” contro “noi”. Marco Doria, a Genova, è stato aggredito perché è passato da “noi” a “loro”. “Loro” è la classe dirigente, politica, istituzionale, dei mezzi di comunicazione di massa, delle imprese, e anche sindacale. “Noi” è il 99% dei cittadini, il popolo che si sente fuori del potere.
Se la distanza abissale che si è aperta fra “noi” e “loro” non viene colmata, il Paese non va da nessuna parte. La mano di chi aggredisce e imbratta un Circolo di partito — non è certo la prima volta, non sarà l’ultima — è sempre di pochissimi. Ma parla della sfiducia assoluta di moltissimi “noi”.
Questa sfiducia impedisce il cambiamento.
La sfiducia di “noi” blocca la partecipazione diffusa alle decisioni pubbliche e alla loro attuazione; anche quando — non è frequente, ma capita — le istituzioni provano a coinvolgere i cittadini, dalle scuole alla cura di infanzia e anziani, alle opere ferroviarie, da Acerra a Genova, al Sulcis. La sfiducia priva “loro” della conoscenza e del saper fare di “noi”. La sfiducia spinge “loro” a dare in pasto a “noi” i sacrifici che la casta dei mezzi di comunicazione di massa invoca per la casta del palazzo — auto blu, Province e roba simile — sacrifici che nulla valgono e nulla cambiano ma che comprano altre settimane di vita per i governi. La sfiducia dà a molti “noi” l’alibi per comportamenti amorali, per non rispettare regole, imposte e doveri — «“loro” non li rispettano» — con la scusa di “non fare la figura dell’unico fesso che crede ancora nello Stato”; e così trasforma “noi” in “loro”, senza che ipocritamente lo si ammetta.
“Loro” — di cui io faccio parte, beninteso, come faccio parte anche di “noi” — possono riconquistare questa fiducia solo facendo accadere cose, verificabili. Non promettendole. Ma non può accadere nulla di buono se non c’è fiducia, capace di mobi- litare conoscenza e consenso. Ecco il circolo vizioso, la trappola, in cui siamo conficcati: non ci può essere fiducia senza cambiamento; non ci può essere cambiamento senza fiducia.
Per uscire dalla trappola, per evitare che questa uscita sia peggio del male — un’uscita autoritaria, tanto per intenderci — “loro” dovrebbero fare la prima mossa, una mossa vera e radicale. Il passo indietro di una generazione — quella al potere — come suggerisce Michele Serra, che metta in circolo nuove energie, rinnovi l’amministrazione, inietti concorrenza nel sistema delle imprese, dia un colpo al cinismo e alla rinunzia. Ma all’amor proprio di “loro” questa mossa converrà solo quando si troveranno sull’orlo del burrone e non ci saranno più Monti e taglio delle pensioni per tornare indietro. Non servirà, perché a quel punto sarà tardi. E allora?
Allora, c’è la politica. La sola che permette di uscire dalla trappola. Un pensare e agire collettivo dove amor proprio e amore per gli altri — spirito pubblico, scriveva Adam Smith — si mescolano in un moto dove tutto diventa possibile, perché non è più la convenienza spicciola a guidare i comportamenti. Ma la visione, il disegno di una rigenerazione, guidata da valori robusti, di sinistra. Coerente con l’idea di sinistra che il cambiamento delle gerarchie sociali è un valore in sé.
E così diviene possibile immaginare che un bel pezzo di “loro”, la classe dirigente che appartiene o fa riferimento al Pd, faccia unilateralmente il passo indietro. Concordando con le leve “giovani” che subentrano, non un lasciapassare o qualche posto al sole da cui “ cumannari” ancora, ma l’annuncio e la pratica di nuove regole del gioco, per assicurare che dopo una breve cavalcata nuovista i nuovi non si trasformino in “loro”, prima ancora di accorgersene. Insomma un partito palestra, che coinvolga le forze dei territori, le intelligenze, il lavoro in uno straordinario e emozionante impegno per riscrivere il Paese. E che sappia costruire un rapporto robusto fra generazioni, con le nuove leve che dirigono e quelle vecchie che si lasciano usare.
Di questo passo indietro, delle nuove regole del gioco che devono accompagnarlo, di come ripristinare i canali di comunicazione tra partito e società, di “tre questioni” sulle quali galvanizzare “noi” attorno ad una visione di sinistra dell’Italia del 2033, vorremmo vedere discutere Pippo Civati, Gianni Cuperlo e Matteo Renzi da qui al 7 dicembre notte. Assieme e più volte. Perché un Congresso sia davvero un Congresso (come lo è stato, nonostante tutto, in molti circoli e province del Paese). Perché già dal confronto intenso ma coeso venga il segnale limpido di un impegno a colmare il vuoto fra “noi” e “loro”.

La Repubblica - 23/11/2013

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