domenica 17 novembre 2013

Il quid di Alfano, e quello di Matteo Renzi

Stefano Menichini 

 

Quale peso dare davvero alla scissione del centrodestra. E quale decisione devono prendere presto il Pd e il suo segretario.
Eugenio Scalfari ci vede addirittura «la nascita di una destra repubblicana». Che sarebbe una bellissima notizia, intendiamoci, solo pare un po’ esagerata di fronte alla scissione concordata tra i berlusconiani di Forza Italia e i berlusconiani del Nuovo centrodestra. Il fatto è enorme, e avrà un impatto sul quadro politico e sulla legislatura; però è importante capirsi su ciò di cui realmente si tratta.
La rottura è vera, non è una messa in scena. Non nasce però da un giudizio finalmente maturato ed espresso sulla fine del ruolo di Berlusconi, sulla necessità di nuovi assetti svincolati dalla centralità del fondatore, sulla pericolosità della sua propaganda populista. Da Alfano e dai suoi non si è sentito, finora, nulla del genere. Mentre sappiamo benissimo che negli ultimi due mesi le tensioni personali all’interno del Pdl avevano raggiunto livelli insostenibili; che la ricostruzione di Forza Italia a opera di Verdini e Santanchè escludeva perfino fisicamente il vicesegretario del Pdl (neanche una stanza nella nuova sede di San Lorenzo in Lucina); e che alla fine un esausto e amareggiato Berlusconi si è arreso di fronte alla propria incapacità di mediare, ricucire, rimettere insieme gente che letteralmente si odiava.
Questo è quello che è successo. È vero, finalmente è stato tirato fuori il famoso quid. Ma non c’è alcun nuovo disegno per il paese. Tant’è vero che Berlusconi assimila il neonato partito agli alleati della Lega e di Fratelli d’Italia. E che la prospettiva che il Ncd si dà è quella di tornare a convergere appena possibile, naturalmente dopo aver stabilito rapporti di forza più favorevoli: nulla di sorprendente, se solo si studiano le biografie del ceto politico scissionista.
Naturalmente gli eventi possono travolgere questo comodo e relativamente indolore schema di divisione concordata. Fin dalle prossime settimane. Dunque il Pd avrà presto modo di verificare le intenzioni reali dei suoi “nuovi” alleati di maggioranza, e di prendere le contromisure adeguate.
Non è in discussione quale sarà la gestione della decadenza parlamentare di Berlusconi: s’è già capito che i berlusconiani d’ogni fede alzeranno alti lai tenendone però al riparo il governo.
Piuttosto: la partita sulla legge di stabilità si sbloccherà in favore di misure più forti per il lavoro, chiudendo l’estenuante tira e molla su Imu e dintorni visto che Brunetta è diventato inessenziale?
Le riforme istituzionali e la riforma elettorale usciranno dalla palude, e in quale direzione? Per mettere in sicurezza il bipolarismo o per lasciare aperta la strada a operazioni neocentriste? Perduta la zavorra belusconiana, governo e maggioranza saranno più agili e veloci nell’abolizione delle Province e del senato, nella promessa e mai attuata riforma del finanziamento pubblico dei partiti, magari perfino nella riforma della giustizia?
Su quasi tutti questi temi Alfano ha chiesto ai propri elettori (?) dodici mesi di tempo per essere giudicato. Esattamente la stessa cosa che aveva fatto Matteo Renzi chiudendo la Leopolda un mese fa, perfino quasi sugli stessi temi.
Non so se Renzi dicesse la verità, dando a se stesso (e quindi al governo Letta) quel termine: la fine del 2014. Mentre sono certo che Alfano è più che sincero: un anno è il minimo che serve al centrodestra, vecchio e nuovo, per rimettersi in condizione di competere. Passando da elezioni europee, a fine maggio, affrontate con la parola d’ordine della vendetta italiana (e berlusconiana) contro Germania e Francia, contro una moneta “straniera”, contro i lacchè italiani delle arroganti potenze occupanti.
Il Pd può reggere questa situazione, ci chiediamo ormai da giorni?
Sulla questione Cancellieri, ormai la ragion politica spinge verso un esito abbastanza ineluttabile. A parte questo, Letta fa bene a mandare presto il ministro Quagliarello a spiegare a Renzi che cosa il governo voglia fare davvero sulle riforme. Gli sarebbe anche molto utile predisporre qualche misura economica che il Pd possa considerare “propria”, dopo mesi di sacrifici e di senso di responsabilità: solo che da Bruxelles è calato venerdì un ukaze di senso opposto. Di nuovo l’Europa ci vuole austeri, vuole che vendiamo beni pubblici, vuole che tagliamo la spesa: tutta benzina nel motore di chi si oppone a Letta, non di chi lo sostiene.
Nei mesi a venire il governo sarà sempre di più il punching ball di forzisti e grillini, ma continuerà ad avere una sufficiente protezione dai numeri parlamentari, dalla convenienza di Berlusconi (a tenere in piedi il punching ball) e soprattutto dall’assenza di una decente legge elettorale.
Come si proteggerà e si garantirà invece il Partito democratico? Mentre affluiscono i dati dalle convenzioni locali, che sembrano anticipare il probabile esito delle primarie dell’8 dicembre, Matteo Renzi sa di essere atteso presto alla decisione più difficile della sua carriera politica. E nonostante tutto, è molto improbabile che possa scegliere la strada che gli consigliano il cuore, l’istinto e il calcolo personale.

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