lunedì 25 novembre 2013

Ho firmato una legge per gli stadi, me la ritrovo a favore della lobby del mattone

Ritorna il dibattito su una legge dedicata a impianti sportivi e stadi e con esso riaffiora tanto per cambiare il vizio endemico del nostro paese: l'incapacità di conciliare lo sviluppo con la tutela del territorio e del patrimonio culturale, di far collaborare pubblico e privato senza scontro ideologico. Quando lo scorso 24 settembre, insieme ad un nutrito gruppo di colleghi deputati provenienti da tutti i partiti di maggioranza, avevamo depositato il progetto di una legge speciale per la riqualificazione e realizzazione degli impianti sportivi in Italia, pensavamo di aver raggiunto finalmente la quadratura del cerchio. Avevamo fatto tesoro dei due fallimenti del Parlamento nelle legislature precedenti disegnando un sistema nuovo di regole in grado, da un lato, di aprire ai privati l'opportunità concreta di investire in questo settore, dall'altro, di preservare l'interesse pubblico di quegli investimenti nelle modalità di gestione di realizzazione degli impianti stessi. Una legge basata su un modello di pianificazione e non dettata dall'emergenza.

Del resto, da anni parliamo di queste nuove regole senza mai arrivare ad un approdo concreto. Nel frattempo i nostri stadi, le nostre piscine, i nostri palazzetti cadono a pezzi e i Comuni, principali proprietari, non riescono a fronteggiare i costi crescenti di manutenzione a causa della morsa del patto di stabilità e delle carenze di bilancio. Le società sportive vivono di attese e svolgono una funzione suppletiva nella gestione e manutenzione che spesso non spetta neanche loro.

La diagnosi è spietata, ma anche difficile poiché i dati completi di cui disponiamo sono vecchi e risalgono ad uno studio intitolato «Gli impianti sportivi in Italia» ed elaborato dal famigerato CNEL nel 2003. Vi si rileva una sensibile percentuale di impianti non funzionanti (14.590, circa il 10% del totale) e un progressivo rallentamento della crescita numerica, nonostante una maggiore incidenza di investimento privato rispetto al passato, dimostrando come i meccanismi attuali non favoriscono gli investimenti e la realizzazione di opere nuove e di ristrutturazione. Si tratta di un patrimonio prevalentemente pubblico di proprietà comunale, situato soprattutto nel sud del paese che necessita di interventi di recupero e di riqualificazione strutturale. A distanza di dieci anni la situazione non può che essere ulteriormente peggiorata. Se poi consideriamo che il parco impiantistico italiano è stato edificato prevalentemente prima del 1981 (62,5 per cento del totale delle unità esistenti) non è difficile immaginare quanto sia diventata insostenibile l'opera di manutenzione di questo patrimonio.

Questi pochi numeri, aggiunti a quelli che indicano il nostro paese agli ultimi posti in Europa per la pratica sportiva, mostrano la necessità di incentivare e di fornire strumenti più adeguati per favorire nuovi investimenti. Tra i fattori che vincolano lo sviluppo degli impianti sportivi al primo posto si collocano l'insufficienza delle risorse pubbliche e la difficoltà a reperire fondi privati: il sistema attuale di regole non incentiva i privati ad investire nella realizzazione e gestione di impianti sportivi. Per questo oggi più che mai è necessaria una legge che dia una svolta ad un settore in grande sofferenza.

Ancora una volta, però, tutto sembra infrangersi contro l'eterna battaglia tra una classe imprenditoriale miope e senza scrupoli, pronta ad utilizzare le nuove regole come scorciatoie per fare speculazioni, e il fronte intransigente degli ambientalisti e storici dell'arte che vede dietro ogni tentativo di sviluppo la tenuta lobby del mattone. Il Governo ha avuto in questi giorni l'opportunità di superare l'impasse facendo propria la legge depositata in Parlamento che in modo molto chiaro consente ai privati - mediante lo strumento del project financing - di ristrutturare impianti esistenti o costruirne di nuovi grazie a procedure amministrative più snelle e più certe, con la possibilità di realizzare contestualmente strutture economicamente redditizie (alberghi, negozi, uffici) in cambio dell'investimento sull'impianto sportivo, ad esclusione - e qui è il punto - dell'edilizia residenziale.

L'Esecutivo ha voluto giustamente accelerare l'introduzione delle nuove regole, puntando a scrivere un emendamento alla legge di stabilità attualmente in discussione al Senato, ma si è discostato da quel modello equilibrato che in Parlamento eravamo riusciti a realizzare. Il risultato? Una serie di regole - almeno nella versione originaria dell'emendamento - che consentono di costruire anche in aree vincolate complessi sportivi in cambio di opere a carattere commerciale non necessariamente contigue all'impianto sportivo. Come dire che si può costruire uno stadio in una parte della città e, in cambio, ottenere le autorizzazioni a edificare un quartiere magari dal lato opposto e in una zona a vincolo paesaggistico. Le critiche e le proteste erano dunque inevitabili, soprattutto nei giorni in cui il Paese assiste inerme all'ennesimo disastro ambientale questa volta in Sardegna, amplificato dall'incuria dell'uomo verso il paesaggio e il territorio.

Siamo sempre alle solite dunque: quando le nostre istituzioni sono chiamate dall'emergenza a realizzare corsie preferenziali capaci di attraversare la selva ormai inestricabile di norme e il muro invalicabile della burocrazia, non riescono ad evitare di intaccare anche quei principi fondamentali del nostro ordinamento come la salvaguardia del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, l'equilibrio tra libertà d'impresa e interesse pubblico generale. E così scoppiano gli scandali della Protezione Civile o i disastri ambientali in Sardegna, salvo poi ricorrere ai ripari tardivamente e con norme spesso dettate dalla fretta e più restrittive di quanto non avrebbero dovuto essere.

Il Governo in queste ore sta giustamente tentando di correggere l'emendamento che ha attirato le critiche di mezzo mondo. Sarebbe sbagliato se non lo facesse o lo ritirasse, l'ennesima occasione persa. In Parlamento cercheremo di migliorarlo ulteriormente se necessario, con i colleghi Deputati, partendo dal lavoro che abbiamo già avviato nel progetto di legge iniziale. Ma resta, al fondo, il problema strutturale di una pervasiva subcultura dell'emergenza che in questo paese giustifica tutto, scempi e scorciatoie, furbizie e prepotenze, decreti ed emendamenti, commissari e superdirigenti, della quale ogni Governo - questo incluso - rimane schiavo. Va spazzata via senza indugi. E sostituita con la cultura della responsabilità, della pianificazione, della decisione.

Dario Nardella, già vice-sindaco di Renzi a Firenze

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