domenica 17 novembre 2013

La bella sinistra

Mario Lavia 
Europa  

Dove porta la strada imboccata dopo la caduta delle ideologie: il riformismo dovrà allargare il campo oltre i suoi confini tradizionali
Non so se la Repubblica lo abbia fatto seguendo una precisa intuizione politico-culturale o, come spesso accade ai quotidiani, per puro istinto giornalistico, fatto sta che la serie di interviste accomunate dal titolo “Dì qualcosa di sinistra” di qualche tempo fa mi è parsa come un segnale.
Il segnale dello sdoganamento della parola “sinistra”. Sdoganamento?, si chiederà, giustamente, qualunque italiano che oda la parola “sinistra” pronunciarsi in continuazione – martellandola Berlusconi, invocandola gli extraparlamentari, interrogandocisi sopra i Democratici, facendoci i conti i magistrati, i giornalisti, i sindacalisti e quant’altro.
E dunque, è vero: siamo nel paradosso. In una specie di mistero. La sinistra c’è sempre stata e c’è, bene. Come ha detto una volta Massimo D’Alema, «ci vorrebbe un mago per farla sparire». Tuttavia, per ragioni diverse, la parola “sinistra” in questi anni era stata un po’ espunta dal vocabolario politico, quasi se ne fosse assunto, anche dagli aficionados, tutto il disvalore appiccatogli dalla destra (che anche in questo ha condotto un’operazione abile), o la necessità di superarne anche semanticamente il senso all’insegna di pur necessario rinnovamento ideologico.
Da quest’ultimo punto di vista, la storia da ricostruire è semplice. Dopo il sostanziale esaurimento del post-comunismo si è trattato di escogitare, anche dal lato delle parole, qualcosa che fosse congruente con l’auspicata novità politica e organizzativa, che poi si è chiamata Partito democratico. Non a caso esso venne definito, e si autodefinì, come un partito di centrosinistra, e non solo in omaggio alla presenza degli ex popolari, i quali mai è poi mai avrebbero accettato di essere catalogati come membri o dirigenti di un partito tout court di sinistra (loro che pure di quella parola magica avevano fatto una bandiera rivendicando con orgoglio di far parte della sinistra Dc). Per qualche anno, si è stati di centrosinistra, condannando di fatto gli eredi della tradizione comunista a lasciar perdere il gran discorso della ulteriore, forte, volizione della sinistra italiana e regalando l’antica e fascinosa parola ai settori più estremisti e minoritari, peraltro del tutto incapaci, dopo le suggestioni intellettuali del bertinottismo, di fare i conti non tanto con la storia quanto, più modestamente, con la politica.
Ed è mancata, diciamoci la verità, la parola “sinistra”. Trascinata, come il bambino, nell’acqua sporca del comunismo, invocata più sulle terrazze che nelle fabbriche, più dal Nanni Moretti di Aprile che nelle assemblee di fabbrica, vittima della speculare rimozione della dirimpettaia destra, divenuta inqualificabile nel ventennio berlusconiano, la parola “sinistra” in questi anni ha emanato un sentore di cantina, confinata in qualche angolino della soffitta della storia.
Sono stati anni nei quali si è messianicamente atteso un nuovo spazio politico – il centro, i tecnici, una Kadima italiana, i professori, i laici, i grand commis: niente di tutto ciò si è innervato nella realtà italiana, malgrado la costante perdita di autorevolezza dei soggetti più strutturati. È piuttosto venuto avanti un fenomeno come il grillismo, che un pochino di ossigeno lo respira proprio dai consunti polmoni della sinistra tradizionale.
Il punto, a me pare, è che siamo a un tornante di fase. Di cui sono oscuri contorni ed esiti ma paradossalmente è più leggibile la caratteristica di fondo. Con una dialettica più semplice (e magari più sana) fra due poli rinnovati, via via in grado di marginalizzare il grillismo.
O meglio, stavolta il problema non è nel campo dei riformisti. La crisi del berlusconismo nata col voto parlamentare del 2 ottobre riapre in termini completamente nuovi il problema del soggetto politico della destra, essendo anche possibile che quel pezzo così grande di elettorato alla fine opti per un nuovo contenitore più moderato e di tipo europeo, relegando la destra-destra ai margini del sistema politico. Un motivo in più, se così sarà, per recuperare “da questa parte” una nuova nozione di sinistra, nel quadro di un bipolarismo di tipo nuovo.
E dunque siamo tornati a bomba. Il rischio, in queste cose, è la nostalgia, la rivincita di illusioni, il sempre incombente complesso di Dorian Gray che affligge gli uomini da che mondo è mondo. Qualche eco si ascolta qua e là anche nel dibattito del Pd. Un certo spirito di revanche è persino comprensibile, se svolto però in termini seri. Uno dei dirigenti più lucidi e non catalogabili come Walter Tocci ha scritto: «Sembra volgere alla fine questo trentennio che invece di liberista bisognerebbe chiamare dell’inganno. Aveva promesso più crescita economica e invece questa è stata inferiore a quella del trentennio glorioso. Aveva promesso di liberare le forze produttive e invece il lavoro e in parte anche il capitale sono stati dominati dalle rendite finanziarie e immobiliari. Aveva promesso meno Stato e invece hanno statalizzato i debiti della finanza privata […]. Su queste linee di frattura si formeranno nuove soggettività politiche del secolo appena cominciato. Su di esse la sinistra potrebbe “fare popolo” meglio dei comici postmoderni, mettendoci più solidarietà e più cultura. Potrebbe farlo riscoprendo l’attualità delle proprie ragioni dell’eguaglianza, del lavoro, della democrazia».
Tocci pone due problemi. Anzi, due ordini di problemi. Il primo riguarda i valori della sinistra. La domanda è gigantesca e ovviamente nessuno sa né può rispondere compiutamente. Per farla breve: lo schema ideologico imperante per decenni e decenni, in base al quale il valore fondante e distintivo della sinistra è l’uguaglianza, riassunto schematicamente ma brillantemente nel celebre saggio di Bobbio Destra e sinistra, regge ancora? È sufficiente? È in sintonia coi tempi nuovi che stanno arrivando/sono arrivati?
Massimo Cacciari, per esempio, dice di no: «Nel suo sforzo di definire le basi di un “tipo ideale” della sinistra, Bobbio ricorse all’idea guida di uguaglianza. Ma era una base disperatamente povera, non sorreggeva una vera dualità, una vera opposizione. Chi mai oggi promuove la diseguaglianza? Voglio dire, chi la propone apertamente come programma politico? È chiaro che la diseguaglianza esiste, anzi cresce, ma non è un’ideologia, è un fatto. La diseguaglianza non è il programma odioso di un avversario riconoscibile, semmai è la forma che ha assunto la globalizzazione, è l’anonimo che ha preso il volto dello stato di natura, dell’inevitabile, e nessuno se lo intesta. Se poi volete dire che combattere le ineguaglianze è necessario, siamo d’accordo; se volete dire che questo è il senso dell’essere di sinistra, fate pure, ma siamo ancora all’inizio, non abbiamo ancora definito niente. Come si superano le diseguaglianze? Con quali strumenti, istituzioni, aggregazioni politiche?».
Però era stato lo stesso Bobbio, proprio mentre catechizzava sulla “diade” uguaglianza-disuguaglianza, a rendersi conto che l’argomentazione fosse insufficiente: «Nel linguaggio politico occupa un posto molto rilevante, oltre alla metafora spaziale (destra-sinistra, ndr), quella temporale, che permette di distingue gli innovatori dai conservatori, i progressisti dai tradizionalisti, coloro che guardano al sole dell’avvenire da coloro che procedono guidati dalla inestinguibile luce che viene dal passato. Non è detto che la metafora spaziale, che ha dato origine alla copia destra-sinistra non possa coincidere, in uno dei significati più frequenti, con quella temporale».
Ecco allora che il Tempo viene ad assumere la funzione di spartiacque: e, come dice un po’ letterariamente Bobbio, la sinistra può (deve?) tendere a coincidere con l’idea di innovazione (in ciò ritrovando, peraltro, la spinta vitale dei suoi albori e dei suoi momenti migliori, quindi in un certo senso ritrovando la sua anima). E invece in Italia, negli ultimi decenni, la sinistra è apparsa, ed è effettualmente stata, più conservatrice che innovatrice. Magari nobilmente. Perché tendeva a conservare quelli che via via erano avanzamenti reali dei processi sociali e politici, dato che è propria della prassi politica del movimento operaio italiano la visione progressiva dei rapporti di classe e del corrispondente peso del Partito.
Ed ecco il secondo problema: lo strumento. Il partito.
Nel momento di massima difficoltà della sinistra italiana, che personalmente colloco fra la seconda metà degli anni Novanta e la nascita del Pd (2007), il Partito – gli eredi del Partito – aveva quasi sgombrato il campo. Alla ricerca di qualcosa di nuovo ma sguarnendo tutte le postazioni politiche e ideologiche che bene o male, nei periodi precedenti, ne avevano saputo preservare la sussistenza (dentro un quadro di ritirata che nulla aveva di strategico – altro che la leniniana “scienza della ritirata”!), si assegnò al confuso movimentismo dei girotondi o più seriamente alla Cgil cofferatiana il compito di riprendere in mano la bandiera politica e anche ideologica (l’egualitarismo simboleggiato dalla battaglia in difesa dell’articolo 18).
Scrisse in quel periodo Mario Tronti: «Era un momento di grande difficoltà delle forze di sinistra perché c’era stata, l’anno prima, una dura sconfitta elettorale e, nel corso dell’anno che seguì, una mancata risposta politica da parte delle forze sconfitte. Maturò e si espresse, così, anche una critica dal basso verso i gruppi dirigenti, mentre giganteggiava a suo modo la figura del leader della destra, che intorno a sé concentrava comunque molta ostilità. Poi, c’era la corposa realtà della vita concreta di grandi masse sociali, soprattutto di lavoratrici e di avoratori che cominciavano a sentire sulla pelle i danni provocati dall’attacco a storiche conquiste sociali, e a temere il peggio per il futuro. […] Il sindacato (la Cgil) fu l’unica grande organizzazione storica che si trovò, in quel momento, a percepire, quasi da sola, quella spinta, a doverla, quasi obbligatoriamente, rappresentare. Io non credo che sia stata “una grande illusione”; è stato un movimento molto reale».
La citazione di Tronti illumina bene il vuoto che si era creato sul palcoscenico dei partiti della sinistra. Oggi sappiamo che l’idea che potesse sopperirvi la Cgil era non solo errata ma illusoria. Con Epifani prima e Camusso poi le caratteristiche “politiche” della Cgil sono evaporate. Non sarà stato per caso se l’incubazione e poi la nascita del Pd abbiano coinciso con lo smarrirsi politico del sindacato di corso d’Italia. Mentre andava esaurendosi l’estremismo politico di Rifondazione e della sua costellazione di gruppi e partitini. Sfida impari, quella del bertinottismo: rifondare una critica della società senza un’adeguata bussola teorica e soprattutto senza l’individuazione di uno strumento politico adeguato. Intendiamoci, sono i corni del mega-problema che si è trovato e si trova ad avere il Pd che pure, sull’uno e l’altro corno della questione, ha provato a darsi una risposta: ancora carente risulta però l’impianto teorico-culturale e solo potenziale la forza dello strumento-partito, dopo la falsa partenza veltroniana e l’obiettivo rinculo successivo.
La novità è che anche il Pd risintonizza le antenne su una nuova idea di sinistra. Una nuova possibilità. Matteo Renzi, al di là degli stereotipi, parla di “sinistra” senza problemi: «Noi siamo di sinistra perché pensiamo che il futuro sia casa nostra, perché pensiamo che la sinistra sia curiosità e voglia di conoscere. La sinistra non può essere talebana e integralista, non può pensare che chi la pensa esattamente come me vada distrutto con tutte le armi. Questa non è la nostra sinistra, è la loro. La sinistra che vogliamo noi è quella del coraggio, che decide, che ascolta e concerta tutto, soprattutto l’ora di decidere».
Come ha scritto Filippo Sensi (Europa, 27 settembre), «quando gli fanno quella domanda, la domanda, e cioè se, in fondo in fondo, sia davvero di sinistra, Matteo Renzi si mostra tutt’altro che contrariato, anzi. Come a dire di non temere l’esame del sangue che pure gli viene richiesto ogni due per tre per capire se, veramente, sia uno di noi, uno dei nostri.
Glielo ha chiesto Enrico Mentana, alla festa del Partito democratico di Genova, ultima domanda, quella quando hai le difese basse e puoi scivolare. Ma il sindaco di Firenze ne ha approfittato per un finale in crescendo, declinando la parola sinistra, così insidiosa e ispida, con una sfilza di impegni presi e, secondo lui, onorati a Firenze. Le biblioteche pubbliche, gli asili nido, la pedonalizzazione, il wifi libero. Cioè, una sana lista di cose “tradizionalmente” di sinistra, senza rinunciare, tuttavia, al suo frame più abituale, quello della lotta contro il conservatorismo, contro una certa compiaciuta supponenza, e poi, colpa grave, contro la voluttà minoritaria della sconfitta. Insomma, ancora oggi, a poche settimane dalla sfida delle primarie, Renzi non rinuncia a tenere insieme i due corni: quello che gli è più congeniale, del merito, del talento, secondo la suggestione blairiana che gli viene spesso rimproverata, in particolare a sinistra, come fosse una malattia; e quello, invece, di una concretezza a misura di città, di servizi e impegni misurabili, del tutto post-ideologica, ma compatibile con il lessico famigliare di una comunità esigente, che vuole essere rassicurata nella propria identità».
In chiave storico-ideologica, si può a questo punto ipotizzare un terzo tempo della storia della sinistra italiana del dopoguerra: prima marxista – sia pure nella versione “italiana” – poi socialdemocratica, quindi liberal-riformista.
Sarebbe questa una sinistra che estende i suoi rami ben oltre il fogliame tradizionalmente coltivato e che punta a entrare a contatto con altri stilemi ideologici. Scrisse bene, nel suo linguaggio difficile, Franco Cassano già molti anni fa: «La sinistra potrà continuare a vivere nel cuore dell’esperienza soltanto se invece di identificarsi, secondo una vecchia topografia, con uno dei due lati, accetterà di andare a cercarsi sui confini, dove ogni figura si tocca con altre».

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