martedì 12 novembre 2013

Epifani deve capire che affiliarsi al Pse è dannoso

Pierluigi Castagnetti 

Europa  

Inutile sminuire: si è voluto mettere il Pd di fronte al fatto compiuto. La questione non riguarda solo i cattolici. Vogliamo discuterne?
La decisione di Guglielmo Epifani di organizzare a Roma il prossimo congresso del Pse, supponendo dunque l’affiliazione del Pd al Pse, è un errore sotto diversi punti di vista. Innanzitutto è un atto politicamente illegittimo perché non è stato assunto da un organo collegiale competente: non si può gridare allo scandalo per l’ipotesi futura dell’“uomo solo al comando” e poi arrogarsi il titolo di assumere in solitudine una scelta che modifica la natura del partito: chi non è d’accordo in quale sede può dirlo?
Ma, si obietta, dal punto di vista formale la scelta definitiva sarà presa dalla prossima assemblea nazionale del partito. E, allora, si attenda quella discussione e quella decisione e poi, se sarà positiva, si dichiarerà la disponibilità del partito a ospitare il congresso del Pse. No, è inutile tentare di sminuire, qui si è voluto mettere il partito di fronte al fatto compiuto.
Capisco pure il dato che sia Epifani che Pittella a suo tempo facevano parte della federazione giovanile del Pse in quota Psi e, l’attuale dirigente esteri del Pd, Giacomo Filibeck, ne è stato segretario, ma qui non si tratta di organizzare un bel “ritorno a casa” come se in questi sei anni di vita il Pd avesse scherzato. C’è una ragione se sin dall’inizio il Pd, guidato da un segretario che pure era stato segretario dei Ds, Walter Veltroni, dichiarò di collocarsi inequivocabilmente nel campo democratico e riformista europeo senza però entrare nel Pse.
Il Pd aveva allora l’ambizione, in Italia e in Europa, di dar vita a un partito “nuovo”, post-ideologico, pluralista, riformista, euro-federalista e, ovviamente, democratico anche nella sua vita interna. Che senso avrebbe avuto rinunciare alle vecchie ragioni sociali (alle vecchie ditte, avrebbe detto Bersani) se non ci si lasciava guidare da questa ambizione? Tanto valeva restare quali si era (Ds, Margherita, Liberal e Socialisti) e semmai federarsi.
Che è successo di diverso ora per rinunciare a quella ambizione? Si ritiene che sia superata, che non ci sia più bisogno di questa novità e che, dunque, occorra «tornare alle radici» (Epifani), che non ci sia più necessità di superare le forme politiche del Novecento, che occorra cioè entrare in un partito europeo i cui attuali membri ci stanno con sempre maggiore disagio e con la consapevolezza di  essere prigionieri in un contenitore in crescente allontanamento dalla realtà?
Come si vede la questione non riguarda i cattolici del Pd, ma dovrebbe riguardare tutti quelli che hanno creduto nel “mito fondativo” del partito nuovo. Non è necessario evocare Pietro Scoppola e Michele Salvati che avevano predetto che ove si fosse arrivati a questo punto, si sarebbe messa una pietra tombale sul Pd.
C’è veramente ora qualcuno che pensa che per uscire dalle attuali difficoltà «dobbiamo tornare là dove non siamo mai stati» (è un bel verso di Giorgio Caproni)? C’è qualcuno che pensa che dobbiamo diventare come i gloriosi Partiti socialisti del Novecento che oggi perdono quasi ovunque in Europa?
Ma, si obietta, tutto questo è vero, però se si vuole contare occorre entrare in un grande partito player (grande?, player?). Precisiamo allora che di questi presunti grandi attori europei c’è traccia soltanto, e non a caso, nel dibattito politico italiano, dove la debolezza della politica cerca coperture altrove piuttosto che guardare in faccia le proprie responsabilità. I partiti europei sono oggi castelli di carta.
Mi piacerebbe chiedere ai membri della direzione nazionale del Pd chi di loro conosce il nome dell’attuale segretario bulgaro del Pse: sarebbero meno della dita di una mano, e ciò dice tutto. Le cosiddette famiglie politiche sono nient’altro che i gruppi presenti nel Parlamento europeo, e lì noi ci stiamo “felici e contenti”, associati al vecchio gruppo Pse che, proprio a causa di quella associazione, ha accettato di trasformarsi in  gruppo dei “Socialisti e Democratici”. Cos’altro c’è da cambiare, da aggiungere, e perché non si capisce.
Ma, si dice ancora, al congresso Pse della primavera prossima c’è da scegliere il candidato alla presidenza della Commissione europea. A parte il fatto che risulta che il Pd abbia già sottoscritto (chi l’ha deciso?), insieme ad altri 18 partiti socialisti nazionali, la candidatura di Schulz, mentre i partiti socialdemocratici dei paesi nordici preferivano quella del primo ministro danese e Jacques Delors quella del francese Pascal Lamy. Vogliamo discuterne?
Dovrebbe essere chiaro a tutti che, stando ai vigenti trattati, il presidente continuerà ad essere scelto dai capi di governo a prescindere dalle indicazione dei partiti e che lo stesso Schulz dovrebbe essere designato dalla Merkel quale commissario. Ciò detto, il prossimo presidente della Commissione europea, se sarà Schulz, sarà il presidente voluto dalla Merkel. Pensiamo che questa sia la strada ideale per andare oltre un’Europa germano-centrica?
Ancora: tutti sappiamo che la maggiore insidia al prossimo Parlamento europeo è rappresentata dal probabile ingresso di un “esercito” del 20 per cento di partiti euro-ostili, che renderà molto difficile il governo dell’assemblea e che costringerà l’invenzione di nuovi aggregati e nuove alleanze, purtroppo anche nuovi compromessi, che potranno essere attutiti e bilanciati solo se le posizioni euro-federaliste avranno la possibilità di esprimersi ad alta voce e non di essere imprigionate in contenitori ambigui come è sicuramente  oggi il Pse.
Queste sono le ragioni per le quali vorrei che la dirigenza del Pd, a partire dal suo segretario, comprendessero che la scelta dell’affiliazione al Pse è a mio avviso semplicemente dannosa, per il Pd e per la sua credibilità in Italia e in Europa. Ovviamente tutto è opinabile, ma occorrono sedi in cui opinare.

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