sabato 19 luglio 2014

Si cerca un mediatore per Gaza: America, dove sei?

Lorenzo Biondi 
Europa  

La diplomazia prova a riorganizzarsi dopo l’attacco di terra su Gaza. La tregua dovrà passare dal Cairo, ma l’intervento degli Stati Uniti potrebbe essere indispensabile
L’attacco di terra contro Gaza non sta demolendo solo i tunnel di Hamas. I canali della diplomazia, costruiti faticosamente durante i primi nove giorni dell’operazione Margine protettivo, sono logori, consumati. Il canale egiziano, prima di tutto. Il presidente palestinese Abu Mazen si era congedato da poco da Abdel Fattah al Sisi, suo omologo al Cairo, quando è partita l’offensiva, giovedì sera. I negoziatori israeliani – guidati dal capo dello Shin Bet, Yoram Cohen – avevano passato la mattinata in Egitto, a discutere con le controparti di un possibile testo. L’accordo non c’è stato. Il consiglio dei ministri d’Israele che doveva decidere dell’attacco – fissato in un primo tempo per la mattina di venerdì – è stato anticipato al pomeriggio di giovedì. Poi l’invasione.
Sfoghi egiziani
La reazione del governo egiziano, dopo l’attacco, è stata scomposta. Non era passata neppure un’ora dall’ingresso dei soldati israeliani a Gaza quando il ministro degli esteri del Cairo, Sameh Shukri, si è presentato ai giornalisti per formulare il suo j’accuse. Uno sfogo contro Hamas e contro i suoi alleati regionali, la Turchia e il Qatar, colpevoli – dice Shukri – di aver «ostacolato» la trattativa.
La nuova leadership egiziana si sente sotto esame. Il generale al Sisi vuole restituire all’Egitto un ruolo di potenze regionale: la crisi di Gaza è il primo vero test. Il suo predecessore, l’islamista Mohammed Morsi, riuscì a mediare tra Hamas e Israele. Il nuovo governo, per ora, ha fallito la prova. E Shukri, davanti ai microfoni, ha scaricato la responsabilità su due rivali dell’Egitto: Turchia e Qatar.
Erdogan, un improbabile paciere 
Del resto, il ministro degli esteri egiziano non ha tutti i torti. Come l’Egitto, anche Turchia e Qatar aspirano al ruolo di arbitro e giudice delle questioni del Medio Oriente. Ma nessuno dei due paesi sembra in grado di far ragionare, allo stesso tempo, Hamas e Israele.
L’ambizione di Recep Tayyip Erdogan, il premier turco, è sterminata. A meno di un mese dalle elezioni che dovrebbero incoronarlo presidente, Erdogan sta provando a presentarsi al mondo arabo come un leader di statura regionale. E per farlo ha alzato il tono della retorica anti-israeliana: la guerra contro Gaza è un «genocidio», ha detto ieri, dando pure del «tiranno» al presidente egiziano al Sisi. Non proprio un approccio da mediatore. Non a caso, Israele ha preso poco sul serio l’offerta turca di fare da tramite tra Tel Aviv e Hamas. La delegazione israeliana ad Ankara, ieri, era formata da diplomatici di terza classe. Niente ministri, niente sottosegretari, nessun capo dell’intelligence. Una soluzione all’impasse diplomatico non arriverà certo dalla Turchia.
Ieri pomeriggio fonti francesi hanno fatto sapere che Parigi sta facendo pressione sul Qatar affinché convinca Hamas ad accettare una tregua. Sarebbe stato lo stesso Abu Mazen a chiedere un intervento a Laurent Fabius, il ministro degli esteri della Francia, prima di partire lui stesso alla volta della Turchia e di Doha. L’obiettivo di Abu Mazen – in ogni caso – rimane quello di far firmare ad Hamas la proposta di cessate il fuoco stilata al Cairo. L’unica proposta concreta, per ora.
Aspettando Kerry
Nel 2012, durante l’ultima crisi di Gaza, la trattativa fu relativamente facile. L’Egitto dialogava con Hamas. Gli Stati Uniti dialogavano con Israele. Egitto e Stati Uniti furono i mediatori della tregua. Stavolta la faccenda è molto più complessa. E l’America, finora, ha deciso di rimanere ai margini della trattativa. Barack Obama ha ripetuto più volte a Netanyahu che bisogna lavorare per la tregua. Ma John Kerry non si è ancora fatto vedere nella regione. Se la situazione non si sbloccasse e se Israele continuasse con l’assalto a Gaza, il segretario di stato americano potrebbe arrivare al Cairo nel giro di un giorno o due. Per provare a tirare i fili, a ricomporre i frammenti della trattativa. Mentre il conto delle vittime continua a salire.

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