martedì 29 luglio 2014

LA SFIDA AL LEADER


MASSIMO L. SALVADORI

Ecco la scena: i leader dei tre maggiori partiti, e non solo, messi di fronte a contestazioni, in parte aperte e in parte coperte, del loro ruolo; le riforme universalmente invocate, ma molte divisioni e sottodivisioni in relazione al volto che queste dovrebbero assumere; la rivendicazione in materia avanzata da dissidenti, collocati trasversalmente, del diritto di ciascun parlamentare di opporsi per motivi di “coscienza” ai deliberati delle rispettive maggioranze di partito in quanto giudicati persino pericolosi per la stessa democrazia.
Circa la disponibilità universale a varare le riforme, teniamola per quel che vale: niente; poiché è come la conclamata volontà che nessuno vorrebbe negare di perseguire il bene pubblico. In concreto ciò che si osserva sono acuti contrasti. Condizione in verità normale secondo la dialettica democratica; sennonché il problema è che i contrasti dalle conseguenze più rilevanti sono dentro il Pd e Fi, dove emergono critiche intransigenti da parte di bellicose minoranze nei confronti della linea dei leader e delle maggioranze che li seguono (ma ora, per quanto riguarda Fi, dopo la sentenza liberatoria di Milano occorre attendere di vedere in che misura il politicamente ringiovanito Berlusconi sarà in grado di mettere in riga l’ala protestante dei Fitto e compagni). Anche tra i 5 Stelle le nuvole nere non sono poche e il Grillo parlante ha i suoi sudditi riottosi.
La sfida al leader si presenta rilevante soprattutto nel Pd, dove Renzi si trova a misurarsi con uno stato di cose palesemente contraddittorio. Infatti, da un lato egli è fortissimo: per la clamorosa vittoria conseguita alle Primarie, il successo eclatante alle elezioni europee e il consenso dimostratogli da eminenti partner dell’Ue; dall’altro però è non poco indebolito dal fatto che tra il Pd rispecchiato nei suoi gruppi parlamentari — espressioni di una precedente stagione ma in grado di far valere il potere decisionale che quella stagione ha loro consegnato — e il partito degli iscritti e degli elettori conquistati dal giovane leader si è interposta un’ombra profonda. In settori influenti dei gruppi e nelle minoranze del Pd non viene meno la resistenza a Renzi, un segretario e un presidente del Consiglio non amato, mal sopportato, ma molto temuto, che si vuole contrastare tanto nella gestione nel partito quanto nel disegno delle riforme. Si oppone resistenza a che il Pd diventi il “partito di Renzi”, su cui vengono fatte gravare le accuse ogni giorno ripetute di neoberlusconismo e decisionismo autoritario. Alle quali Renzi risponde che coloro i quali gli remano contro sono gufi, e anche, quando perde maldestramente le staffe, persone timorose di un nuovo che potrebbe sbalzarli dalle poltrone. Serpeggia, insomma, nei maggiori partiti in particolare e in generale nell’intero arco politico un malessere che mette in luce squilibri tutt’altro che di secondaria importanza.
Ma veniamo alle rivendicazioni dei parlamentari che affermano il diritto (Chiti, Mineo, Minzolini e altri) di opporre il dissenso che sale dalla loro “coscienza” — in difesa dello spirito autentico della Costituzione e della democrazia — rispetto all’orientamento prevalente nei propri partiti. È una posizione ineccepibile. Un parlamentare non ha vincolo di mandato, è e ha da essere e rimanere libero di obbedire alla sua coscienza. Sennonché un uomo di partito sceglie in quanto tale di operare in un organismo che può agire con efficacia alla condizione che entro di esso prevalga il principio di maggioranza, il quale è il fondamento di una democrazia che non sia soltanto libertà di espressione ma anche da ultimo la capacità di far prevalere un progetto sull’altro. Se, dunque, la minoranza si convince che la maggioranza — caso di estrema gravità — diventi portatrice di progetti antidemocratici, allora essa ha il diritto-dovere di negare il proprio consenso. Ma è chiaro, andando al sodo delle implicazioni, che quanto dettato dalla coscienza politicamente non ha altro significato se non la messa in atto di una linea politica alternativa. Affermare: io ho una coscienza pura e democratica e per questo mi oppongo, suggerisce di necessità che gli altri, consapevolmente o inconsapevolmente, coscienza e spirito democratico non abbiano. Tutto ciò pone o quanto meno dovrebbe porre ai dissidenti l’interrogativo circa la natura e il senso dei loro rapporti con i partiti cui appartengono.
È presumibile che assisteremo a scomposizioni e ricomposizioni nel nostro sistema politico tali da darci una mappa politica segnata da rimescolamenti e rimodellamenti. Mappa la quale non si delinea ancora, ma che — dato che i partiti sono agitati da fibrillazioni e appaiono organismi dai collanti incerti, divenuti per aspetti assai rilevanti decisamente ambigui — pare essere insieme inevitabile e augurabile.

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