sabato 26 luglio 2014

Così lo fate vincere facile

Stefano Menichini 
Europa  

Renzi approfitta di un estremismo anti-riforme che rimarrà schiacciato nel referendum. I suoi avversari in realtà lo stanno aiutando. Fin troppo
Il sistema per arrivarci è decisamente anomalo, diciamo un escamotage. L’obiettivo però è cruciale: dare ai cittadini elettori l’ultima parola sulle riforme della Costituzione sulle quali ci si sta scontrando in parlamento. Lo strumento referendario in materia costituzionale è specificatamente previsto ed è stato già utilizzato: una volta ha confermato la riforma del Titolo V con la quale nel 2001 il centrosinistra aveva cercato di evitare la sconfitta elettorale; un’altra volta ha bocciato il pacchetto del centrodestra nato nelle famose sere estive di Lorenzago. Due riforme strappate in parlamento con maggioranze di parte, con quorum inferiori ai due terzi, quindi insufficienti a evitare il decisivo test popolare.
Ma il quorum fissato nella Carta del ’47 aveva senso in un’epoca di solidità del sistema parlamentare. Oggi sarebbe consigliabile sottoporre al giudizio degli italiani perfino una legge approvata dai tre terzi di deputati e senatori, oltre tutto eletti col Porcellum. Di qui la “trovata” del Pd: autoridurre le dimensioni del voto finale sulla riforma Boschi, in modo da poter poi dare la parola agli elettori.
E subito c’è chi lo chiama plebiscito. L’abbiamo già notato: gli avversari delle riforma Boschi si fanno forti di una asserita volontà popolare di mantenere il senato elettivo, e su questa base descrivono lo scenario di terribili colpi di mano e spaventose svolte autoritarie. All’apparire però di un referendum confermativo, la gran parte di loro dimentica la virtù superiore del suffragio universale e denuncia l’operazione gollista: una posizione davvero molto debole.
Noi cerchiamo di essere più equilibrati. E sinceri.
È vero che, sulla sua linea politica e nella sfida con gli oppositori, Matteo Renzi gode di tre maggioranze sovrapposte e crescenti: quella parlamentare delle larghe intese, ereditata dal voto del febbraio 2013; quella, più ampia e più concentrata sul suo partito, uscita dalle Europee del maggio scorso (palesemente connessa al programma di riforme); infine quella virtuale che fin d’ora gli garantiscono tutti i sondaggi e che verosimilmente Renzi saprà aggregare sulla scelta secca pro o contro bicameralismo.
Questa constatazione non esclude però il rischio plebiscitario, casomai lo conferma. Ed è giusto riconoscere che se in un momento fra il 2015 e il 2016 Renzi dovesse ottenere il placet referendario sulle sue riforme, il risultato andrebbe molto oltre il tema istituzionale, e c’è da immaginare che l’incasso politico ed elettorale sarebbe immediato.
Al di là delle simpatie di parte, fa paura questa prospettiva? Invece di spaventarsi sarebbe meglio lavorare fin d’ora a creare le condizioni affinché una vittoria politica non si trasformi in potere squilibrato, eventualità che non deve piacere a nessuno: è tutto un tema di garanzie da potenziare nelle istituzioni e di credibilità da conquistare di fronte all’opinione pubblica. Ebbene, dall’opposizione di questi giorni alla riforma Boschi, per come è condotta, non scaturiranno né garanzie migliori né un più forte contrappeso al renzismo.
Nel fronte anti-riforma ci sono molti, forse la maggioranza, che hanno come vero unico obiettivo la totale sconfitta del premier. Ora, prima che possa rafforzarsi ulteriormente.
Ce ne sono però anche altri sinceramente interessati al merito istituzionale, e a riequilibrare su questo terreno i rapporti di forza col segretario del Partito democratico.
Costoro farebbero meglio a rinunciare alla linea della spallata, che è perdente e li schiaccia sull’oltranzismo. Molto più logico e produttivo sarebbe abbandonare l’ostruzionismo, entrare nell’orizzonte della riforma accettando i paletti per il Pd irrinunciabili, lavorare su correzioni sui punti di garanzia (per esempio i referendum) e soprattutto sull’incrocio tra nuovo assetto istituzionale e legge elettorale, visto che in ogni caso l’Italicum dovrà quasi sicuramente essere rivisto.
Non sarebbe una resa a Renzi (mentre perdere davanti a lui nel referendum confermativo equivarrebbe a una disfatta). Sarebbe un servizio ai cittadini, in primis a quelli critici e preoccupati. Ci si sfilerebbe dal fronte del No, bersaglio troppo facile per un premier icona dell’ottimismo. Si ricostruirebbe, nella partecipazione alle riforme, un ruolo politico non negativo da spendersi in futuro.
È un discorso che vale in particolare per Sel e per la Lega. Certo non per Cinquestelle preda delle sue contraddizioni, né per i suoi fiancheggiatori di ambiente intellettuale e giornalistico: i più arrabbiati di tutti perché più di tutti hanno da perdere dalla rifondazione per via di riforme di un “paese normale” liberato dalle scorrerie di bande contrapposte di odiatori di professione.
Scontiamo oggi il fatto che il doppio binario immaginato dal prsidente Napolitano per Monti e poi per Letta (al governo gli interventi economici e sociali, al parlamento l’autoriforma della politica) si sia rivelato un binario morto. Il parlamento non era riuscito a produrre nulla, prima di dover partire alla rincorsa di una leadership affamata. L’intera legislatura si stava arenando, insieme all’immagine dell’Italia, in un gioco estenuante (assai poco trasperente e quindi assai poco democratico) di veti incrociati.
Quello che accade oggi è il bello e il brutto di una situazione anomala nella quale si intrecciano due percorsi che, certo, sarebbe stato meglio tenere distinti.
Non è colpa di Renzi, se le cose sono andate così. Ma è evidente che è Renzi, l’uomo «dell’ultima spiaggia», che può beneficiarne. In che misura – se tanto o poco, il giusto o troppo – dipenderà anche dalla saggezza dei suoi avversari: dovessero continuare a sbagliare, a insistere a stare nel posto peggiore, poi non potranno lamentarsi quando si manifesterà la tanto evocata volontà popolare.

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