sabato 26 luglio 2014

Quei paletti sociali che ostacolano la parità.


Corriere della Sera 26/07/14

Il governo ha aperto il semestre europeo con una conferenza sui progressi delle donne nei governing boards : la percentuale femminile nei Consigli italiani è oggi al 22% dal 6% di prima della Legge 120/2011. La direttiva europea 2012 e la Legge Mosca-Golfo hanno avuto un impatto formidabile, ma il successo delle donne istruite al vertice è in contrasto brutale con lo status sociale della popolazione femminile italiana e la lentezza del processo di riforma del mercato del lavoro rispetto alle promesse del governo e alle aspettative dell’Europa.

Il tasso di attività al 53,9% è il più basso dell’Unione Europea, simile alla Siria; l’occupazione al 46,5% è 10 punti sotto la media Ue27 e la fertilità è all’1,42. Un quadro scoraggiante, che misura quanta ricchezza venga persa a causa dell’assenza delle donne dal mercato del lavoro. Per capire queste anomalie bisogna andare oltre le leggi dell’economia, al cuore delle norme sociali e culturali che definiscono il ruolo della donna e del lavoro in Italia.

Una prima misura è data dall’aumento dei casi di femminicidio: l’Onu ci considera un caso problematico per l’inefficacia della legge sullo stalking. Il centro antiviolenza SVSeD della Clinica Mangiagalli di Milano ha accolto 656 vittime nel 2012, 746 nel 2013 e 433 da inizio anno, nel 36,05% per mano del marito o convivente. Persino il monitoraggio di questa emergenza quotidiana è carente: l’unica rilevazione nazionale è l’indagine Istat 2006, con il 2013-2014 in corso. All’organizzazione non governativa Intervita dobbiamo l’unico studio sui costi della violenza: 16,7 miliardi nel solo 2012, anno in cui 6,3 milioni sono stati spesi in prevenzione e 124 donne hanno perso la vita — il 25% più del 2011. Oltre 30 donne su 100 hanno subito violenza una volta nella vita; solo 18 l’hanno considerata un reato.

Per spiegare questi dati occorre capire cosa determini il potere contrattuale delle donne. L’economista Gary Becker vedeva la famiglia come un’unità produttiva dove coniugi complementari dividono il surplus in base a produttività individuali e vantaggi comparati. La rivoluzione femminista ha spostato l’accento sull’eguaglianza anziché sulla specializzazione di genere e la teoria economica si è concentrata sul potere contrattuale: uomo e donna interagiscono fino alla soglia dello scambio di minacce. Perché esso risulti credibile, deve avere come fondamento l’indipendenza economica: la minaccia di divorzio da una donna priva di mezzi, ad esempio, non è credibile.

Le politiche della famiglia aumentano l’occupazione femminile, ma le donne s’indirizzano ancora verso settori meno tecnici, con minori prospettive di reddito. Inoltre, il loro potere contrattuale è influenzato da convenzioni sociali. Le donne che non lavorano, quando entrano nel matrimonio o nel rapporto di coppia, finiscono per tornare a ruoli ancestrali. In contesti dove la condizione di donna divorziata o sola è marchiata da uno stigma sociale, il matrimonio o la convivenza diventano irreversibili e rallentano la fuga da unioni segnate da violenza.

Politiche sociali più efficaci sono possibili. Nonostante gli alti livelli d’istruzione — è donna il 60% dei laureati — meno del 50% lavora. L’istruzione universitaria in Italia è sussidiata dallo Stato: donne che si laureano ed escono dal mercato per sostenere la famiglia bruciano risorse preziose per se stesse e la collettività. La scarsa presenza femminile sul mercato è però anche una questione di cultura dell’offerta. È necessario incentivare le donne a conservare la propria identità lavorativa, soprattutto in una crisi come questa. Si può pensare a un sistema di incentivi tale per cui i sussidi universitari, in forma di prestiti, debbano essere restituiti solo se chi li riceve decidesse di uscire volontariamente dalla forza lavoro per stare a casa.

Un’altra via per aumentare il potere contrattuale femminile è trasformare le convenzioni sociali che regolano la cura della famiglia, rendendole più egualitarie. In Norvegia il congedo parentale è diviso equamente tra donne e uomini ed è obbligatorio per entrambi; in Italia la legge obbliga gli uomini a un solo giorno nei primi 5 mesi di vita del neonato.

Una parità di genere radicata nel profondo dei comportamenti significa non solo promuovere donne con istruzione superiore a salire al vertice, ma anche più responsabilità verso l’intera popolazione femminile italiana, ancora priva di una coscienza compiuta della propria indipendenza economica.



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