martedì 27 agosto 2013

Perché al Pd è mancata una Bad Godesberg

Pierluigi Castagnetti 

Europa  

Com’è potuto accadere che nonostante la serietà del nostro programma ancora una volta non abbiamo vinto? Se non sopportiamo il “dolore” di questo interrogativo non ne verremo a capo
Parlare di congresso e di identità del Pd in queste ore così incerte e convulse può sembrare un lusso ozioso, ma non lo è.
Le prossime elezioni infatti, siano quando siano, e sia chi sia il nostro candidato, non saranno una passeggiata, dovremo munirci di corde e scarponi. Del resto mi sento obbligato a tornare sul tema perché nei giorni scorsi Stefano Fassina dalle pagine dell’Unità ha interloquito con il mio articolo qui apparso il 14 agosto scorso (oltreché con Fioroni e Boccia) in modo molto puntuale e rigoroso.
In particolare ha ripreso, contestandolo duramente, il passo in cui sostenevo che la «sinistra storica cammin facendo si è convinta che il Pd potesse essere l’ultima forma della sequela di forme-partito realizzate nel corso di un secolo, sempre evitando il trauma di una Bad Godesberg…» chiedendosi e chiedendo: «Quali sono state le posizioni assunte durante la segreteria Bersani che hanno riproposto la continuità comunista, la conservazione, la vetero-socialdemocrazia?».
Dirò subito che non risponderò a questa domanda sia perché non coglie il senso delle mie osservazioni, sia perché io ho votato Bersani alle primarie e ne ho condiviso il programma puntigliosamente richiamato da Fassina, sia infine perché ho molto rispetto per il percorso compiuto dalla sinistra storica italiana.
A me pare che la domanda che dovremmo porci sia un’altra: com’è potuto accadere che nonostante la serietà del nostro programma ancora una volta non abbiamo vinto? Se non sopportiamo il “dolore” di questo interrogativo non ne verremo a capo. Alle ultime elezioni abbiamo registrato infatti il dato elettorale, in valori assoluti, peggiore degli ultimi venti anni, tre milioni di voti in meno del solo Pds (io stavo altrove) di Occhetto nel 1994. Ma veniamo a confronti più vicini e omogenei: nelle elezioni del febbraio scorso abbiamo preso come coalizione 10.047.808 (3.641.552 in meno rispetto al 2008) e come Pd 8.644.523 (3.450.783 in meno rispetto al 2008). E, se proprio vogliamo continuare a soffrire, possiamo aggiungere che come coalizione abbiamo preso 8.954.790 (!) in meno rispetto al dato di Uniti nell’Ulivo del 2006.
Se ci fermassimo alle giustificazioni da propaganda (tipo: la destra ha perso il doppio di voti di noi, l’astensionismo è un dato comune alle democrazie moderne, molti nostri elettori passati al M5S torneranno alle prossime elezioni) riveleremmo scarsa intelligenza oltreché scarsa attitudine a sopportare il male. Dobbiamo invece, ora che la ferita è aperta, proseguire la nostra analisi per cercare le cause in profondità.
Secondo uno studio recente di Ipsos metà dei nostri ultimi elettori ha più di 55 anni, un terzo più di 65 anni. Il movimento di Grillo è il primo partito in quasi tutte le segmentazioni dell’elettorato compresi gli operai (29% contro il 20% del Pd e il 24% del Pdl), i disoccupati (33% contro il 18% del Pd e il 25% del Pdl), gli studenti (37% contro il 23% del Pd e il 25% del Pdl). Il Pd è il primo partito (37%) solo tra i pensionati.
Vorrei che ci fermassimo su questi numeri che valgono assai più dei nostri filosofemi e delle nostre polemiche. Sono numeri che non ci parlano della divisione all’interno del Pd fra social-democratici e cattolico-democratici, ma che, al contrario, rivelano una dislocazione dell’elettorato assai “laica” e secolarizzata rispetto alle ideologie che sono alle nostre spalle.
Le fasce demografiche giovanili e quelle intermedie stanno prevalentemente altrove, le fasce sociali più deboli (operai e disoccupati) stanno prevalentemente altrove, le fasce dei nuovi lavori e dei nuovi ceti produttivi pure. Perché? Perché non hanno letto il nostro programma? Perché abbiamo fatto qualche errore nella comunicazione? Perché non hanno apprezzato la chiusura orgogliosa e la ristrettezza del gruppo dirigente del Pd? Perché abbiamo letto poche encicliche del magistero sociale della Chiesa?
E si potrebbe proseguire con tante altre domande più o meno retoriche, ma inutilmente, poiché è evidente che non di questo si tratta. Io non so dare la risposta. Personalmente posso solo osare, tentare, con tutti i rischi del caso. Penso che le tante risposte/ipotesi possibili possano essere riassunte da una: perché siamo visti, nel nostro complesso, come un pezzo di storia nobile ma ormai passata. Il nostro (gran parte) personale, il nostro linguaggio, il nostro argomentare, evocano un altro tempo. Destra/sinistra, moderati/progressisti, neoliberisti/neosocialisti, credenti/non credenti, sono categorie importanti e io credo non superate, eppure sembrano diventate insopportabili quando sono declinate nel linguaggio politico.
La modernità sembra pretendere la priorità del linguaggio della concretezza e la conoscenza dei problemi. Una concretezza che abbia incorporata (senza che sia declinata autonomamente) la dimensione etica. La politica si vorrebbe fosse progetto ma soprattutto comportamento. La “pedagogia sociale” di papa Francesco ha molte cose da insegnare: non la dottrina, ma il comportamento che incorpora la dottrina. Con la misura di radicalità necessaria a trasmettere l’idea della propria alterità/diversità. Siamo in una nuova epoca, caro Fassina.
Il «cambiamento epocale», di cui parla con tanta sapienza Alfredo Reichlin, nella società italiana (e non solo in quella ovviamente) è già avvenuto, e la politica non può pensare/sperare che sia ancora in corso: è avvenuto!
Non mi sorprende che in questo particolare momento Letta e Renzi siano i nostri maggiori interpreti di questa novità. So bene che entrambi sono figli di una “storia” che numericamente è minoritaria nell’impasto originario del Pd, e questo oggettivamente può fare problema, e non ritengo affatto che questa loro origine dia loro titolo per impartire lezioni di modernità ad altri, semplicemente constato che chi proviene da una storia politica “non ideologizzata” si trova oggi meno a disagio nel comprendere le domande della modernità. Mi riferisco ovviamente alle domande compatibili con la serietà e la responsabilità della politica. In questo senso deve essere interpretato il mio riferimento alla Bad Godesberg mancata alla sinistra italiana. Cioè quel lavacro culturale e mentale che è condizione di vera laicità, nel senso di vera libertà di sguardo rispetto al reale.
Le socialdemocrazie nordeuropee, quella tedesca, il laburismo britannico, godono della libertà di parlare di “neue mitte” o di “new welfare” senza aprire dibattiti su presunti cedimenti ideologici e accuse di tradimento, semplicemente perché si pongono solo il problema di interagire più efficacemente con i dati della realtà. Non è pragmatismo.
È senso della realtà. Con ciò significa rinunciare all’ambizione/responsabilità di raddrizzare il “legno storto” (la «mutazione antropologica» di cui parlò a suo tempo Pasolini) di questo tempo “berlusconizzato” in cui l’eccesso pulsionale affascina materialisticamente tanti elettori? In cui, come osserva Massimo Recalcati, il padre non è più simbolo della Legge ma della sua continua trasgressione? In cui la libertà è l’indice di una volontà di godimento che rifiuta ogni esperienza del limite? In cui sembrano accettate le leggi ad personam come leggi che rifiutano la Legge? Sicuramente no.
Ma bisogna sapere che il tempo della semina dei valori, della induzione di nuovi costumi e atteggiamenti mentali virtuosi necessita di spazi lunghi, di pazienza, di coerenze confermate nel tempo, di coltivazione delicata e rispettosa della coscienza collettiva di un popolo e, soprattutto, di un linguaggio contemporaneo che consenta ai cittadini che ci osservano (e, purtroppo, poco partecipano) di capire e distinguere, perché nessuno possa più dire l’insulto inascoltabile: «Siete tutti uguali». Ciò su cui vorrei riflettessimo è il dato difficilmente declinabile della nostra essenza e del percepito della nostra essenza.
Non è necessario riferirisi a una specifica enciclica sociale o parlare bene di Cl (!) per manifestare il nostro riconoscimento dei diritti connessi alla libertà religiosa, né – vorrei dire – affermare come è scritto nel documento dei socialdemocratici tedeschi a Bad Godesberg che per quanto riguarda l’impianto valoriale ci si riferisce alla tradizione cristiana, basta che le proposizioni politiche manifestino tale “sentiment”. La stessa cosa vale per le politiche economiche, e non solo. È il “percepito” di noi che conta e che dovrebbe essere al centro dell’analisi del nostro deludente e preoccupante risultato elettorale. Spero che al congresso se ne possa parlare, finalmente in modo serio e laico.

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