mercoledì 14 agosto 2013

Dalla sua crisi il Pd può uscire solo con il nuovo

Pierluigi Castagnetti
Europa   

Volevamo andare oltre la somma delle nostre culture, non ci siamo ancora riusciti
È inutile girarci intorno: il Pd è in crisi. Ma ciò non deve spaventare. Essendo l’unico partito vero sulla piazza, è evidente che più e prima di altri sente e vive sulla propria pelle la crisi del sistema politico. Ma le crisi si superano e possono permettere di attrezzarsi meglio per affrontare la sfida del cambiamento. In cinese, si sa, la parola crisi si scrive con due caratteri: pericolo e opportunità. Del resto fu Machiavelli a ricordarci già a suo tempo che l’intelligenza delle persone si misura dalla loro capacità di trasformare le difficoltà in nuove opportunità.
La condizione però sta nel riconoscere e accettare la crisi, per poterla indirizzare in una direzione piuttosto che in un’altra. Nell’ultimo numero di Civiltà Cattolica il gesuita Javier Melloni parla della crisi come categoria antropologica e spirituale facendo esempi e citando autori che aiutano a discuterne in modo serio. Il suo è un lungo ragionamento che non coinvolge direttamente i sistemi politici, ma non esclude che lo si possa fare.
A me è venuta subito alla mente la crisi del Pd.
Raccoglierò soltanto due suggestioni che possono aiutarci. La prima viene dallo scienziato Thomas S. Kuhun che negli anni sessanta ha aperto un dibattito attorno alla sua teoria sui «cambiamenti di paradigma» con cui dimostrava che la conoscenza non progredisce in modo lineare, ma con una successione di cicli. Nel suo stato normale la scienza non scopre alcuna novità pratica o teorica. Gradualmente cominciano ad apparire anomalie, le quali mostrano – osserva padre Melloni – che la natura ha violato le aspettative previste. «Quando appaiono fenomeni nuovi, all’inizio si ignorano, ma col tempo occorre cambiare il metodo che conduce a essi. Il pratico va verso il teorico, ma il teorico resiste ad accettare le anomalie del pratico – per la tendenza all’omeostasi (cioè alla stabilità) – finché non appare una nuova teoria scientifica che sia in grado di integrare queste singolarità in un nuovo sistema concettuale che possa spiegarle».
Ciò comporta a lungo andare un cambiamento di paradigma e finché questo non avviene non si riesce ad apprezzare l’importanza della novità. Vi è poi un’altra suggestione che mi piace raccogliere dallo psichiatra Carl Gustav Jung che parla della crisi esistenziale che in genere investe l’uomo a metà del suo cammino, tra i quaranta e i cinquanta anni: «A partire da metà della vita rimane vivo soltanto ciò che vuole morire con la vita». Ossia, bisogna morire prima di morire, come dicono molte religioni a partire dal cristianesimo, se non si vuole sopravvivere morti nella vita. E qui mi fermo, perché ce n’è abbastanza per riflettere sulla crisi del Pd. La quale può essere descritta per tante sue manifestazioni, ma oggi soprattutto per la paura di un passaggio che non si è voluto fare quando pure ci si era impegnati a fare. Il Pd infatti nell’intenzione di noi promotori avrebbe dovuto essere il partito nuovo che, lasciando alle spalle senza rinnegarle le tradizioni e le culture dei soggetti fondatori, cercava di andare oltre “fabbricando” un nuovo sostrato culturale e una nuova prassi politica e, dunque, un partito “nuovo”.
Ciò però non siamo stati capaci di fare, trovando più facile affiancare quanto pre-esisteva e accantonare quanto divideva. E così la sinistra storica cammin facendo si è convinta che il Pd potesse essere l’ultima forma della lunga sequela di forme-partito realizzata nel corso di un secolo, sempre evitando il trauma di una Bad Godesberg, e le altre tradizioni, a partire da quella cattolico-democratica, si sono trovate nella condizione numerica e politica di dover “abbozzare” cercando di salvare, per quanto possibile, dignità e identità. Il partito “nuovo” avrebbe potuto essere una Bad Godesberg non traumatica per la sinistra italiana, ma l’occasione, ad oggi, non è stata colta.
La nostra crisi è tutta qui. La nostra paura del congresso è tutta qui. Resistiamo, ed è fisiologico, a far morire ciò che deve morire, a cambiare profondamente ciò che deve necessariamente cambiare se vogliamo essere protagonisti in una stagione in cui sono irrevocabilmente saltati gran parte dei paradigmi del passato. Anch’io fatico a capire e ad accettare, ma so che bisogna farlo, con fiducia. Mi viene in mente Dossetti quando diceva: «Attendetevi cambiamenti ancora più profondi, cercate nuovi riferimenti, io sono un sopravvissuto di una stagione che è finita, appartengo veramente al secolo scorso».
Torniamo al nostro congresso. Dobbiamo essere fiduciosi dell’opportunità che ci apre. Non superficiali certamente. Attenti a evitare che la sua dinamica prevedibilmente dirompente si scarichi sul governo e sul paese, vigilanti rispetto al rischio di snaturamento del ruolo di una sinistra moderna che mai potrà confondersi con la destra: antifascismo («se è accaduto, può sempre riaccadere», diceva Primo Levi), difesa della Costituzione, equità, tensione all’uguaglianza effettiva, diritti soggettivi irrinunciabili a partire dal lavoro saranno sempre elementi distintivi. Ma come declinarli al di fuori di una “gabbia” ideologica dovrà essere il rischio che siamo disposti a correre.
Se non facciamo questo salto nella nostra mente, non lo faremo nei comportamenti e nelle scelte conseguenti. E rischiamo di sopravvivere morti nel resto della nostra vita (di partito), dando alla destra il vantaggio e il tempo per reinventarsi.

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