lunedì 22 giugno 2015

Se l’immigrazione diventa la leva per scalare il Comune di Milano.


Corriere della Sera 20/06/15
Dario Di Vico
Spulciando negli annali si scopre che il risultato di Alessandra Moretti (22,7%) in Veneto è inferiore alla sconfitta del Fronte Popolare che nel ‘48 si fermò al 23,9%. La giornalista Alessandra Carini ha scritto che, visti i candidati, il Pd avrebbe perso anche contro Topo Gigio. Le analisi sono così feroci perché solo sei mesi fa il partito di Matteo Renzi esaltava la raggiunta «contendibilità» del Veneto e il premier validava quest’analisi con una presenza costante nelle fabbriche e nelle assemblee confindustriali. Eppure anche stavolta la sinistra ha segnato il passo in una terra che resta ostile e che sembra respingerla antropologicamente. La lista degli errori è lunghissima e le distanze tra centrodestra e Pd appaiono così larghe che anche un candidato più testato, come il sindaco di Vicenza Achille Variati, avrebbe perso comunque. Consumato il flop c’è poco da fare se non costruire un’opposizione di buon senso al governatore Luca Zaia, che ha promesso un secondo mandato più interventista del primo dipanatosi all’insegna del quieta non movere. 
 Ma l’onda della débâcle veneta si proietta già sul prossimo e più importante confronto del Nord, la scelta nel 2016 del sindaco di Milano. Fino a qualche settimana fa c’era la convinzione che il vincitore delle primarie Pd avrebbe avuto la strada spianata, ora invece è spuntata la paura perché il ciclo del renzismo vittorioso si è arrestato e in parallelo sono salite le quotazioni del milanese Matteo Salvini. Va da sé che la composizione sociale milanese è assai diversa da quella veneta e il Pd è in questo momento il partito in sintonia con le trasformazioni di un corpo sociale che, superate le vecchie classi, può essere mappato solo per grandi aggregati. Scemato il ruolo della borghesia economico-finanziaria è la grande galassia delle competenze a ricoprire in città un ruolo guida e a rilanciare l’idea di una Milano capace di scalare le graduatorie europee. 
 Una galassia che ha come esponenti di punta le archistar, i grandi medici, il top della consulenza d’industria e persino gli chef e che è molto esigente sulle policy ovvero le scelte concrete. Non si accontenta di sentir pronunciare ogni due frasi la parola «innovazione», cerca soluzioni vere per problemi veri. Il terziario moderno ha però anche una sua faccia in ombra, quella che corrisponde alle migliaia di freelance attratti dalla modernità di Milano e che scontano ogni giorno la contraddizione di possedere alto capitale umano e basso reddito. 
 Con questi mondi il Pd dialoga e la Leopoldina dello scorso sabato allo Spazio Ansaldo ne è stata la riprova. Dialoga mostrando rispetto per le competenze, incoraggiando i professionisti a partita Iva, facendo proprie tutte le nuove culture come lo sharing , il movimento dei coworking oppure le social street che operano su Facebook come nuovi comitati di quartiere. Accanto ai nuovi segmenti il centrosinistra milanese ha anche un radicamento tradizionale in un altro grande aggregato cittadino: l’impiego pubblico della scuola/università, degli ospedali, degli enti locali e delle municipalizzate. È un popolo che con il renzismo ha un rapporto conflittuale e alle parole d’ordine verticali sulle sfide di Milano 2020 preferisce un lessico più bersaniano, teso a ribadire i valori orizzontali e coesivi della sinistra. Eppure pur potendo in teoria il Pd sommare ceti innovativi e tradizionali la partita del consenso a Milano è aperta. La sfida viene dal basso, dalla geografia sociale del degrado urbano. Milano è una città cosmopolita che non ha vissuto contrapposizioni radicali all’immigrazione, ha cercato di metabolizzare i nuovi arrivati come aveva fatto negli anni 60. 
 Ci sono però segnali di slittamento di questa mentalità e il terreno più delicato dove si manifestano è la condivisione dei servizi. Vale per alcune linee del trasporto urbano di superficie, per la metro nelle ore del dopocena, vale per le scuole dove il numero dei bambini italiani e stranieri è in equilibrio. Vale certamente per la sicurezza. In tutti questi casi quando la gestione pubblica non riesce ad evitare cadute di qualità il milanese le vive come segno di una retrocessione e finisce per reclamare una differenza tra sé e gli stranieri che non vede più. Non è un rifiuto dell’accoglienza quanto una misurazione severa dei costi della solidarietà. È ovvio che elettoralmente si tratta di un terreno fertile per la nuova Lega di Salvini e un test lo abbiamo già avuto con la propaganda delle ruspe. 
 Il rischio per il Pd è di vedere sconfitta la retorica dell’innovazione da un centrodestra monotematico che punta sull’immigrazione come tallone d’Achille del renzismo meneghino. E che una volta aggregato il disagio dei quartieri popolari più esposti parta da questa base per conquistare l’elettorato moderato e fare bingo. 




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