mercoledì 10 giugno 2015

Del diritto e delle pene


Corriere della Sera 10/06/15
Monica Lazzaroni
Presidente Tribunale di Sorveglianza di Brescia
Giancarlo Zappa non è stato un giudice di sorveglianza e nemmeno un Presidente del tribunale di sorveglianza di Brescia. Giancarlo Zappa è stato «il» giudice di sorveglianza. Non è retorica, né eccesso di enfasi; la sua opera è stata così grande e prolifica che solo l’articolo determinativo può renderne compiutezza. Molti lo ricordano, tra gli operatori del diritto, quale uno dei padri dell’ordinamento penitenziario, come colui che, insieme con alcuni «grandi vecchi» della giurisdizione di sorveglianza, seppe costruire un’architettura nuova, un articolato moderno che sovrintendesse l’esecuzione delle pene. Lo fece con passione, equilibrio, competenza tecnica ma, soprattutto, con grande umanità: e proprio quest’ultimo era il tratto che maggiormente lo contraddistingueva, per giudizio unanime di parti, avvocati, colleghi, detenuti. Qualche volta l’unanimità di giudizi è, giustamente, guardata con sospetto, confligge con il moderno senso critico e con uno spirito di «sano relativismo», tuttavia nel caso di Zappa queste preoccupazioni sarebbero prive di senso. La sua opera scientifica è stata di particolare pregio e profondità di pensiero, ed è, in molte parti, illuminata dal privilegio dell’attualità, perché questa è la caratteristica dei concetti universali, validi in ogni luogo e in ogni tempo. Tuttavia le persone che hanno avuto come me la fortuna di conoscerlo, magari anche superficialmente, concordano nel ritenere che davvero speciale in lui fosse l’afflato umano, il senso di rispetto verso l’uomo, chiunque fosse, delinquente o meno. Era aperto e moderno, ma non buonista, anzi: una delle sue intuizioni più proficue fu proprio il collegamento tra espiazione, legittima e giusta, delle pene anche detentive ed utilità sociale, nel senso di ricollegare una sofferenza inferta a un nostro simile a un vantaggio per la società. Oggi gli studi criminologici più avanzati hanno evidenziato un conclamato parallelismo tra alto tasso di recidiva ed espiazione carceraria e, in correlazione, tra l’esecuzione penale esterna in forma alternativa al carcere e una ridotta ricaduta nel reato. Negli anni Settanta e Ottanta, tuttavia, questi concetti non erano così diffusi nella pubblica opinione (a dire il vero, nemmeno oggi, purtroppo…): allora, come ora, la battaglia più grande consisteva nell’inculcare il concetto che una pena doveva essere utile sia a chi la subiva che al resto dei consociati, affinché non si risolvesse in mera vendetta retributiva. Proprio la propensione a coinvolgere la società esterna e libera ha costituito un altro tratto distintivo della sua opera: la convinzione, cioè, che solo favorendo un’osmosi tra «dentro» e «fuori», solo agevolando la reciproca comprensione, in altre parole solo coniugando tutti le posizioni in gioco (condannati, vittime, consociati) l’impegno sarebbe stato prolifico. E così è stato. Oggi abbiamo, orgogliosamente, una legge penitenziaria avanzata e ammirata nel resto d’Europa e non solo. In Italia, in molte circostanze, prevale un senso d’inadeguatezza, come dello studente che sa di non aver fatto i compiti a casa: non è questo il caso della normativa penitenziaria, lo è semmai di tutto ciò che, a livello strutturale e di risorse, ci manca, ma certo le lacune non investono quell’impianto di regole che Zappa, «primus inter pares», ha saputo forgiare e plasmare con alcuni colleghi illuminati. Questo ci rimane, e non è poco.

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