sabato 9 agosto 2014

Un bel voto di fiducia

Stefano Menichini 
Europa  
 
Intanto quella della vigilia: non credete alle banalizzazioni, la sera del patto del Nazareno non tutti avevano capito che l’accordo tra Renzi e Berlusconi non sarebbe stato volatile e avrebbe retto a molti scossoni; ma davvero pochi vedevano possibilità concrete oltre l’approvazione, già ardua, della legge elettorale. Nessuno – neanche noi – avrebbe messo un euro sull’abolizione del senato elettivo, per di più a opera del senato stesso, entro sei mesi da quel clamoroso incontro.
Ciò che avvenuto nel frattempo (in sostanza, lo sbalorditivo risultato delle Europee) s’è rivelato d’aiuto, ma avrebbe anche potuto avere l’effetto opposto. Anzi, di nuovo nelle prime ore dopo quel voto, il patto del Nazareno veniva per l’ennesima volta liquidato come morto. E soltanto tre settimane fa profondi conoscitori del Palazzo escludevano, di fronte alla durezza dell’opposizione incontrata, che il Pd riuscisse a rispettare il termine che si era assegnato per l’approvazione del nuovo senato, cioè il temerario 8 agosto.
Senza scomodare i gufi, c’è da prendere atto di una rotta politica capace di reggere a temporali e tempeste, reali e mediatiche.
Usiamo poi la prospettiva inversa. Quando guarderemo indietro, poco sarà rimasto delle tormentate giornate di palazzo Madama. L’ostruzionismo, le polemiche, le rotture politiche, tagliole e canguri. Pochi, davvero pochi italiani, riterranno la democrazia mutilata per aver perduto duecentoquindici posti da senatore, e per aver concentrato l’attività legislativa in una sola importante camera, come è ovunque nel mondo. Viceversa, senza confidare in alcun miracolo e aspettando comunque l’approvazione definitiva della legge, la macchina istituzionale italiana avrà avuto la sua più importante manutenzione dal ’47 a oggi. Nulla di risolutivo, ma tutt’altro che una sciocchezza, anche considerando che stiamo parlando di una riforma della quale si discettava vanamente da svariati decenni.
Questi risultati, visti così in maniera un po’ più ampia, portano come è evidente la firma di Matteo Renzi, che ne sarà il primo beneficiario politico (vedremo a quali condizioni). Ma altri soggetti sono stati decisivi.
Il capo dello stato innanzi tutto, autentico regista di un’intera fase, intervenuto senza clamore ma in maniera abbastanza evidente nei momenti di impasse. Poi Silvio Berlusconi, la cui adesione al patto con Renzi ha superato ogni aspettativa, in primis nel suo partito. Il che ha un significato: per i sospettosi, nelle sue speranze di ottenere improbabili salvacondotti; oppure più semplicemente nel vantaggio che l’ex Cavaliere vede in un clima generale nel quale non c’è più parossistica attenzione e ostilità nei confronti delle sue mosse di Uomo Nero.
Una parola, e qualcosa di più, andrà spesa per Maria Elena Boschi: se è vero che ha dovuto imparare facendo, e che certo è stata spesso consigliata e anche guidata, è pur vero che superare certe strette e certi momenti a 33 anni, alla prima esperienza politica, senza mai perdere controllo e fiducia, è segno sicuro di talento.
Last but not least (anzi), i senatori del Pd, che hanno tenuto in uno scontro anche psicologicamente difficile visto che, personalmente, loro come i loro colleghi hanno tutto da perdere dalla riforma approvata ieri. Il clima di scontro frontale li ha aiutati, tagliando fuori un dissenso interno rimasto senza sponde, anche se tutti potranno dire di aver contribuito a migliorare un testo iniziale molto imperfetto. È sempre opportuno fare confronti col passato: se ripensiamo al livello di auto-stima che c’era nei gruppi parlamentari democratici appena un anno fa, sembra davvero un altro mondo.
E poi, ben oltre il Pd, parliamo di senatori che si auto-aboliscono: qualcuno vorrà dare a queste persone un minimo di merito, in un’epoca nella quale fare politica sembra essere qualcosa di cui vergognarsi e basta?
La domanda principe rimane però un’altra, e cioè: quanto vale questa vittoria di Renzi?
Restringendo lo sguardo all’oggi, un risultato perfino insperato appare minato da due fattori.
Il primo è la fatica fatta, e l’immagine che fatalmente anche il premier ha condiviso di un Palazzo della politica travolto e stravolto da uno scontro spesso anche poco dignitoso su un tema di mera valenza istituzionale. I numeri della votazione finale testimoniano della durezza dell’opposizione incontrata. Ma era nel conto, del resto abbiamo qui una maggioranza che il famoso quorum dei due terzi neanche lo desidera. Piuttosto, partiti, gruppi e gruppetti che alla fine neanche erano in aula a votare dovranno riflettere su un danno politico e di immagine ben peggiore, che li colpisce come perdenti e anche come avvelenatori del clima molto oltre l’effettiva posta in palio.
Il secondo fattore negativo è che la riforma, importantissima, arriva però quando l’agenda e l’attenzione del paese sono tornate a concentrarsi su una crisi economica peggiore delle peggiori previsioni.
Lasciamo perdere i commenti, che pure abbonderanno, tesi a sminuire un risultato “inutile” perché tanto “la gente non mangia riforme”. Questo è banale qualunquismo, da parte degli stessi che mesi fa vedevano l’abolizione del senato elettivo come un obiettivo fuori dalla portata di Renzi.
Il rischio vero è che il cambiamento promesso appaia – perfino oggi – come una chimera al di sopra delle possibilità anche dell’unico che ci abbia davvero provato e che sta dimostrando coerenza e determinazione. In altre parole, la vittoria di palazzo Madama rafforzerà l’immagine di Renzi come di un leader tosto e in grado di battere gli avversari. Mentre rimarrà, venata di fatalismo, l’idea (per Renzi nefasta) che in ogni caso contro il declino dell’Italia nulla e nessuno può, come fosse un destino irrevocabile.
Dopo aver piegato gli ostruzionisti, il premier deve allora vincere i fatalisti.
Non sarà facile, perché per quanto lui ne possa pensare e parlare male i dati macroeconomici non sono gufate da stadio bensì indicatori di un quadro che chiede più energie, più decisione nell’affondare il bisturi nella cattiva spesa, più coesione nazionale, più orgoglio da spendere sul tavolo europeo.
È vero, non è scritto da nessuna parte che l’Italia debba farcela per forza. Ma non è scritto neanche che debba per forza capitolare.
Il voto di ieri a palazzo Madama, oltre ad aprire uno spiraglio di speranza in una macchina legislativa più agile ed efficiente (obiettivo per il quale siamo appena agli inizi), annuncia l’esistenza di una maggioranza politica e di una leadership dotate di carattere e solidità, flessibili ma tutt’altro che remissive, non propense al pessimismo. Pare poco, invece è moltissimo.
Questo passaggio non scatenerà l’entusiasmo degli italiani, distratti da tante altre cose. Darà però nuova fiducia a chi è chiamato a governarli: un fattore indispensabile in vista di ciò che li aspetta, e ci aspetta, in autunno.

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