venerdì 22 agosto 2014

Francesco e gli errori americani

Franco Cardini 
Europa  

Il Califfo nero dell’Isis ha molti amici in Medio Oriente. Le parole di Bergoglio spronano gli Usa e l’Onu: bisogna tagliare i ponti con gli sponsor del terrore
È ovvio e naturale, se non addirittura sacrosanto, che il capo della Chiesa cattolica non possa tacere sulla tragedia irachena, anche e soprattutto –ma non certo soltanto – in quanto essa riguarda alcune migliaia di cristiani alcuni dei quali cattolici. Difatti, delle due Chiese cristiane che esistono sul  territorio iracheno, una (la cosiddetta “assira”) è di confessione nestoriana, un gruppo limitato presente comunque in piccole comunità tra Iraq, Iran e India, mentre l’altra (la “caldea”) pur mantenendo il suo rito aramaico ha aderito alla Chiesa cattolica.
Papa Francesco si è espresso in termini molto chiari al riguardo, parlando sia pure in modo amichevole e non ufficiale – ma molto esplicito – con i giornalisti che lo accompagnavano nel suo viaggio di ritorno da Seul. E ha parlato, cosa questa che conferisce all’episodio un carattere simbolico impressionante, proprio solcando i cieli della Cina.
Come suo costume, è stato tutt’altro che sibillino. Ha detto cose gravi, poco “diplomatiche”: perché non è un diplomatico e perché il momento che andiamo attraversando si sta rivelando sempre meno adatto alle cortesie e alle circonlocuzioni diplomatiche. Non ha esitato difatti a evocare lo spettro di una “terza guerra mondiale”. Può essere “maleducato” parlarne: ma è davvero così responsabile il tacerne, visto che i segni e i prodromi di un’eventualità del genere si vanno facendo ogni giorno più chiari e allarmanti? Certo, nessuno potrà sapere com’essa si presenterebbe.  Si sbagliarono nel prevederla nel ’14; e anche nel ’19, quando tutti si prepararono alle trincee e ai gas asfissianti e invece tutto andò ancora peggio, ma in un senso totalmente inatteso.
Sente di non aver tempo, papa Bergoglio. Ha detto esplicitamente anche questo, ricordando le “dimissioni” di Benedetto XVI e alludendo forse a recenti preoccupazioni a proposito della sua salute. Ha ricordato i suoi quasi ottant’anni e ha serenamente parlato di «ritorno alla Casa del Padre», accompagnando però le sue parole con un sorriso e con un gesto delle mano destra che, nella sua Argentina non meno che in Italia, indicano l’atto dell’andarsene. Non so se tutto ciò è passato sui piccoli schermi italiani: la televisione francese gli ha dedicato lunghi momenti, con una discreta attenzione. Ma anche sulle cose irachene, come su quelle palestinesi, in Francia sembra che le emittenti televisive siano un po’ meno abbottonate delle italiane.
Ma il punto centrale è che papa Francesco, a proposito dell’Iraq, ha esplicitamente parlato dell’opportunità di un intervento delle Nazioni Unite. Non si può dire che sia arrivato a invocarlo, anche perché queste sono cose che non si possono fare in una sede interlocutoria come quella nel contesto della quale egli stava esprimendosi. Comunque, una volta di più, va elogiato il suo esplicito coraggio. Ha parlato di un intervento volto a «fermare» i jihadisti: non ha fornito indicazioni, non ha indicato gli strumenti. L’Onu ha, se e quando vuole, anche i mezzi militari per farlo:  ma anzitutto può agire con quelli diplomatici. I jihadisti del califfato di al-Baghdadi sono appoggiati, finanziati e armati – direttamente o indirettamente – dagli emirati della penisola arabica, tutti (con una mezza eccezione per il Qatar, che segue una linea propria) rigorosamente sunniti – tali sono quanto meno gli emiri, anche se non tutti i loro rispettivi popoli – e alleati fino ad oggi sicuri “dell’Occidente”, vale a dire essenzialmente degli Stati Uniti d’America, per quanto nei recenti scellerati casi libico e siriano abbiano trovato dei compagni di strada più sicuri nei governi britannico e soprattutto francese.
Ora, il fatto principale, e che non si può dimenticare nemmeno per un istante, è che tramite i jihadisti gli emirati sunniti stanno da molti mesi ormai combattendo una fitna, una spietata guerra civile contro gli sciiti, che non sono soltanto gli iraniani bensì anche molti arabi tra Siria e Iraq. E a contrastarli esplicitamente sono finora soprattutto, e molto validamente, i peshmerga curdi, sunniti anch’essi ma non arabi e, quel che più conta, avversari decisi dell’Isis di al-Baghdadi. Quegli stessi curdi che, una trentina di anni fa, furono ferocemente fatti a pazzi dal rais Saddam Hussein, allora alleato degli occidentali e che faceva per loro anche la “guerra in conto terzi” contro l’Iran.
Bisogna ricordare tutto questo, nel momento stesso in cui va detto che il pasticcio iracheno è stato combinato dall’unilaterale intervento statunitense del  2003 contro Saddam Hussein, che avrà avuto tutti i difetti di questo mondo ma almeno manteneva nel suo paese la pace religiosa all’insegna della tolleranza. Ed eccoci al nucleo di tutti. Gli americani, in Iraq come altrove, criptoalleati dei fondamentalisti islamici (come sono stati nello stesso Afghanistan prima del 2001) o loro avversari, nel Vicino o Medio Oriente di pasticci ne hanno combinati fin troppi: quel che oggi  bisogna evitare se non addirittura impedire è una nuova loro iniziativa unilaterale. E del resto il povero Obama sembra tutt’altro che disposto a cacciarsi in una nuova avventura, dopo la lezione fallimentare degli ultimi quattordici anni.
Del resto, la diplomazia statunitense ha molti problema nell’intraprendere scelte che potrebbero risultare sgradite ai governi emirali della penisola arabica, che continuano ad essere loro alleati.
D’altra parte anche Israele è, al riguardo, molto prudente: un’eventuale affermazione dei jihadisti nello scacchiere siro-iracheno rischierebbe di rimettere in discussione l’assetto delle alture del Golan. Ma in questo drammatico impasse sono rimasti solo i peshmerga curdi, scarsamente e insicuramente sostenuti dai governi occidentali, a fare da diga contro il fanatismo di quelli del “califfato”.
Da qui la necessità di seguire la richiesta del pontefice: agire subito con gli strumenti della società civile internazionale, intervenire con gli strumenti di una ferma diffida diplomatica nei confronti di al-Baghdadi e dei suoi alleati espliciti o meno che siano. Augurandosi che la diffida diplomatica sia sufficiente; e agendo comunitariamente anche in senso militare, se risulterà indispensabile.
Ma tutto ciò apre la strada anche ad altri scenari, per i quali costituirebbe un precedente obiettivo. Non è solo l’area siro-irachena che a questo punto necessiterebbe di un intervento internazionale, visto che i protagonisti dello scontro armato non sanno, non possono o non vogliono adire con le loro forze a una soluzione negoziata.
Il papa si preoccupa della situazione siro-irachena, vittime delle quali sono fra l’altro dei cristiani. Ma ci sono vittime cristiane anche a Gaza, tra il martello israeliano e l’incudine di Hamas  per il quale i palestinesi cristiani – “melkiti” cattolici o greco-ortodossi che siano – sono dhimmi, cittadini di serie B. Se la crisi di Gaza, ormai una copia fedele dell’infausta operazione “Piombo Fuso” del 2009, continua a infierire, tacerà ancora a lungo su di essa quell’argentino vescovo di Roma, che non ha troppi peli sulla lingua?

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