domenica 10 agosto 2014

Riforme costituzionali, poi l’economia 
Le ragioni di un disegno strategico.


Corriere della Sera 10/08/14

Superata la prima tappa delle riforme costituzionali, può essere utile tornare a riflettere sul disegno strategico in cui esse sono inserite e sulle principali critiche che ha ricevuto. Si tratta di un disegno che il presidente del Consiglio ha dichiarato esplicitamente e continua a ribadire: in questa prima fase di governo, senza trascurare le riforme economico-sociali più importanti o imposte dall’emergenza, è sua intenzione investire le risorse politiche guadagnate con la segreteria del Partito democratico e con la vittoria nelle elezioni europee soprattutto nelle riforme costituzionali ed elettorali.

Di fronte alle difficoltà che il passaggio al Senato ha reso evidenti, di fronte al perdurante ristagno dell’economia, è il caso di interrogarsi se quel disegno è degno di essere ancora perseguito, se mai lo è stato in passato. Tre sono le critiche principali che ha ricevuto. (1) La concezione di democrazia che il disegno di riforme elettorali e costituzionali rivela non è accettabile in via di principio o è inadatta al nostro Paese. (2) Non si tratta di riforme prioritarie: la doppia base di cui il governo deve cercare il consenso — gli elettori italiani e i «custodi» stranieri, Europa e mercati — vuole soprattutto riforme economico-sociali e una rapida ripresa dello sviluppo. (3) E infine non si tratta di riforme facili: esse mettono il governo nelle mani di un socio inaffidabile, Berlusconi, che non è parte della coalizione governativa e già una volta ha fatto saltare il tavolo.

La prima può essere una critica seria, se non la si spinge al punto di paventare poco credibili esiti cesaristico-autoritari: in realtà è assai più temibile, se le riforme dovessero fallire, una situazione di stallo e confusione e il nobile riferimento ai grandi principi nasconde spesso un atteggiamento conservatore o interessi elettorali di piccoli partiti. Il tema di una democrazia governante è sul tappeto dai tempi della Prima Repubblica, è stato oggetto di tre commissioni bicamerali fallite e di un importante tentativo di riforma da parte del centrodestra, fallito anch’esso. Parlare di Seconda Repubblica, come facciamo di solito per il periodo successivo a Tangentopoli, è del tutto improprio se il bipolarismo prodotto dalla crisi politica e dalle leggi elettorali non si incardina in un nuovo assetto costituzionale: sono le riforme costituzionali che danno coerenza e saldezza ai grandi mutamenti avvenuti nell’ordine politico di un Paese. Il passaggio tra il sistema politico bloccato della Prima Repubblica e quello competitivo e tendenzialmente bipolare indotto dalla rottura dei primi anni 90 e dalla crisi della «Repubblica dei partiti», come Pietro Scoppola la definì nel caso italiano, esprime la richiesta di una democrazia governante, guidata da leader dotati di una forte legittimazione popolare. Una democrazia certamente non meno democratica — mi si perdoni il bisticcio — di quella acefala e inefficiente in cui ci ritroveremmo se la riforma fallisse. Essa però impone una riforma costituzionale e quella che si sta tentando, con la nuova legge elettorale e con le riforme del Senato e del Titolo V, può essere un passo nella direzione giusta. Un primo passo, a mio avviso insufficiente, ma se avrà successo ci sarà il tempo per fare i successivi.

È seria anche la seconda critica: i cittadini, l’Europa, i mercati vogliono riforme che rimettano in sesto l’economia, che le consentano di tornare a crescere e a creare occupazione. Le riforme costituzionali non sono una risposta a quelle esigenze: occorre «ben altro»!. Il «benaltrismo» è un difetto congenito del nostro sistema politico, come notava tanti anni fa Luigi Spaventa. Fare le riforme necessarie ad avviare una macchina ingrippata da tempo, della quale una grande quantità di pezzi va riparata o sostituita, non è facile e occorre una grande forza politica per opporsi alle resistenze che gli interessi minacciati frappongono. E poi non basta far passare le riforme in Parlamento: occorre seguirle mantenendo il controllo del governo e dell’amministrazione per un tempo sufficientemente lungo da consentire alle riforme di manifestare i loro primi effetti benefici. Evidentemente Renzi non ritiene di avere oggi quella forza e ritiene invece che solo le riforme costituzionali ed elettorali potrebbero consentirgli di disporne per un tempo sufficientemente lungo. Giudizio opinabile, certo: ma immaginate che cosa succederebbe oggi nel suo partito e in Parlamento se affermasse a muso duro, a proposito di un blocco cruciale di riforme economico-sociali come quello della legislazione sul lavoro: «Faccio mie le riforme predisposte sin nei minimi dettagli da Pietro Ichino». L’esempio è di fantasia e non so che cosa Renzi pensi delle riforme di Ichino, ma spero renda l’idea della forza politica di cui bisogna disporre per far passare le riforme necessarie a riavviare la macchina dello sviluppo.

Con la terza critica passiamo dalla strategia alla tattica. Le preoccupazioni sulla tenuta della coalizione che dovrebbe appoggiare le riforme in Parlamento, una coalizione trasversale tra governo e opposizione, sono più che giustificate. Ma qual è l’alternativa? Anche coloro che oggi criticano maggiormente Renzi e il suo progetto hanno sempre sostenuto che riforme di questa portata non possono e non debbono essere fatte contro l’opposizione. E ora sostengono anche che la riforma del Titolo V, fatta unilateralmente dal centrosinistra, è stata un grave errore. È vero che Berlusconi può alla fine boicottare il progetto: è già avvenuto e può avvenire ancora. Ma gli converrebbe? Escludendo che a Berlusconi vengano date garanzie sui suoi casi giudiziari che non è nei poteri del governo o del Parlamento di concedere, nelle sue linee generali la riforma costituzionale ed elettorale di cui si discute è un compromesso tra proposte in passato sostenute da entrambi gli schieramenti, e forse più dal centrodestra che dal centrosinistra. Un compromesso che consente di tenere a freno forze puramente populistiche e che distribuisce eguali probabilità di successo politico alle due grandi concezioni politiche che si contendono il governo del Paese. Un compromesso che inizia — ripeto, inizia — a riformare il riformatore e a chiudere una transizione sregolata che è durata troppo a lungo.

Di qui la mia personale conclusione. Le obiezioni serie mosse al disegno strategico di Renzi non mi convincono e spero, per il bene del Paese, che egli abbia la possibilità di portarlo avanti. Se poi ci riuscirà è un altro discorso.

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