sabato 16 agosto 2014

“Ho ucciso mia madre per non lasciarla ai carnefici dell’Is”


PIETRO DEL RE
La Repubblica - 15/8/14

I tragici racconti dei profughi yazidi: “Si è rotta una caviglia mentre fuggivamo dagli uomini in nero”

DAL NOSTRO INVIATO DOHUK (KURDISTAN IRACHENO) .

Sono storie così terribili e crudeli, quelle che raccontano gli yazidi scampati al genocidio jihadista, da sembrare inverosimili. Ma per verificarne la veridicità basta leggere il terrore che ancora traspare negli sguardi di chi le narra. Descrivono una sequela di atrocità, compiute in nome di una fede sviata, che fa capire come il provvidenziale e improcrastinabile intervento dei corpi speciali americani abbia, due notti fa, evitato una nuova Srebrenica, o un nuovo Ruanda.
Yalmaz Shanin è uno dei tanti sopravvissuti alla furia islamista. Lo incontriamo alle porte di Dohuk, città del Kurdistan iracheno dove molti yazidi sbarcano percorrendo la strada lungo il confine siriano per aggirare le terre conquistate dallo Stato islamico. Yalmaz è alto e magro, ho gli occhi chiari e la barba fulva. Tre giorni fa, questo ragazzo di vent’anni ha ammazzato la sua adorata madre. Dice: «Quando sono arrivati i jihadisti nel mio villaggio, vicino Sinjar, hanno cominciato a uccidere tutti quelli che incontravano, sparando dalle macchine in corsa. Anche mio padre è morto così, colpito sull’uscio di casa. Non abbiamo neanche potuto seppellirlo: poche ore dopo, ho preso il mio fucile e siamo fuggiti verso le montagne, mia madre, i miei due fratelli e io. Ma appena abbiamo cominciato ad arrampicarci mia madre s’è storta una caviglia. Abbiamo provato a prenderla in braccio, ma senza riuscirci. Sotto di noi, sentivamo le urla e gli spari degli islamisti. Mia madre era terrorizzata, e mi diceva, anzi mi implorava di spararle affinché non fossero i jihadisti a farlo. Io non volevo darle ascolto, non volevo neanche sentirla. Ma lei non riusciva a muoversi, e a un certo punto le ho sparato. E ho ucciso lei e me. Perché finché vivrò non potrò mai perdonarmi di averle ubbidito».
Incrociamo anche Jian a Dohuk, dove è appena sbarcata dopo un’odissea durata giorni, durante i quali questa giovane vedova ha perduto tutto ciò che aveva di più caro: i suoi gemelli di quattro mesi e suo marito. «Siamo stati denunciati come yazidi dai nostri vicini di casa, dei sunniti con i quali prima dell’arrivo dei jihadisti andavamo d’accordissimo. Eravamo terrorizzati che venissero ad ammazzarci a casa, e siamo scappati. Siamo rimasti quattro giorni nascosti in montagna. Avevamo trovato rifugio in una grotta, ma avevamo pochissima acqua con noi e quasi nulla di che nutrirci. Io non avevo più latte, e i miei piccoli sono morti, uno dopo l’altro. Non sapevamo neanche come seppellirli, li abbiamo perciò avvolti in uno scialle e ci siamo incamminati verso una radura dove avremmo potuto inumarli. Ma mio marito è caduto, ha battuto la testa ed è morto anche lui. Adesso sono qui, senza sapere che ne sarà di me».



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