Dalla Cassazione al terreno insidioso della lotta alla corruttela:
il sì del magistrato anticamorra a Matteo Renzi dopo tanti No grazie ad
altrettanti incarichi
Ora manca solo il “sigillo” di palazzo dei Marescialli che dovrà
deliberare la sua messa fuori ruolo dalla magistratura, perché oggi il
Consiglio dei ministri ha approvato la nomina di Raffaele Cantone a
presidente dell’”Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e
la trasparenza delle amministrazioni pubbliche” dopo (gli unanimi)
pareri favorevoli espressi dalle competenti commissioni parlamentari.
L’ok dal Csm potrebbe sembrare pura formalità, ma non per lui che ha
sempre interpretato il ruolo di magistrato con la sostanza degli
argomenti e dei risultati ottenuti, più che con la forma del titolo.
Tant’è che per strappargli qualche commento o idea sul nuovo importante
incarico che andrà a ricoprire, ci rimanda al «non appena sarà fuori
ruolo e mi sarò insediato».
Per quanto da tempo salito agli onori delle cronache, Cantone non è
tipo da cavalcare l’onda pur non disdegnando il confronto con i suoi
lettori avendo anche scritto libri di successo, il primo, nel 2008 Solo per giustizia, (edito da Mondadori) l’ultimo, del 2013, Football Clan (Rizzoli) nel quale con il giornalista de L’Espresso,
Gianluca Di Feo, ricostruisce i rapporti tra mafia e pallone. E proprio
il suo primo libro racconta molto delle motivazioni che l’avevano
portato, da giovane avvocato nato a Giugliano, a scegliere di guardare
in faccia la camorra della sua terra martoriata diventando magistrato
per combatterla a viso aperto.
Tanto da diventarne il nemico pubblico numero uno. Cantone è stato
infatti fino al 2007 alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli ed è
anche, se non soprattutto, grazie a lui se le più importanti indagini
contro il clan camorristico dei Casalesi si sono concluse con
l’ergastolo ai capi di quel gruppo: Francesco Schiavone, detto Sandokan,
Francesco Bidognetti, detto Cicciotto ‘e Mezzanott, Walter
Schiavone, detto Walterino, Augusto La Torre, Mario Esposito. Automatico
l’inserimento del suo nome nella black list camorrista che gli ha
imposto una vita blindata, con tutto quel che ne consegue.
Era stato Roberto Saviano, in Gomorra, a raccontare le gesta
di questi grandi boss camorristici e delle indagini condotte e, nel
frattempo, concluse con successo da Cantone. In un certo senso, uno è
stato l’alter ego dell’altro, nello svelare il malaffare e la
potenza economica assunta dai clan campani e che pure erano stati
sottovalutati per decenni. E fu sempre Saviano, nel 2011, a tentare di
lanciarlo nell’orbita politica avanzandone la candidatura a sindaco di
Napoli, subito sostenuto da Walter Veltroni che considerò la proposta
«forte e intelligente».
Di candidature ne sono state proposte varie al “fuoriclasse” Cantone,
e forse proprio nelle motivazioni che ha dato nel declinare i ripetuti
inviti da parte della politica, si può intuire il perché di questo sì
all’incarico di guidare l’Authority anticorruzione.
«…Non ho intenzione di candidarmi alle primarie e a questa
conclusione sono giunto non per spocchia o per snobismo culturale ma
semplicemente perché credo sia la scelta più corretta e più giusta, non
solo per me. Effettivamente ho ricevuto varie proposte di candidatura.
Amministratori non ci si improvvisa e soprattutto una candidatura in una
realtà difficile come Napoli di un magistrato (o comunque di un tecnico
completamente estraneo o a digiuno di quanto accade nel complicato
mondo della politica) non può essere una scelta estemporanea» così
motivò allora il suo No grazie in un’intervista al Mattino.
Quindi aggiungeva: «La ragione vera è che non sono tagliato per
questo ruolo; mi riconosco un’intransigenza che mi rende difficile anche
solo l’idea del compromesso (parola in sé non certo soltanto
disdicevole) e non ritengo di avere le doti del demiurgo, capace di
risolvere gli enormi problemi di questa città». Concludeva Cantone: «Non
prendere in considerazione nemmeno l’idea di candidarmi è quindi il
migliore servizio che posso fare per la città; non è più tempo di
ingenerare aspettative di grandi cambiamenti se poi c’é il rischio, per
tante ragioni, di deluderle».
Queste parole gettano ancora più luce sul personaggio che Enrico
Letta aveva scelto per far parte della task force di palazzo Chigi
(insieme ad altri magistrati e funzionari) per elaborare una strategia
contro il crimine organizzato. E che ora Matteo Renzi ha voluto alla
guida dell’Anticorruzione (in realtà era anche in predicato per il
ministero della giustizia assieme all’altro magistrato calabrese, Nicola
Gratteri, con il quale, peraltro, è stato nominato da poco
collaboratore – a tempo parziale e non retribuita – alla commissione
Antimafia).
E sempre queste parole forse spiegano che ora crede nelle reali
possibilità di fare, incidere e dare un segno di svolta alla tante volte
annunciata ma mai perseguita veramente lotta alla corruzione.
Evidentemente, avrà avuto garanzie di essere messo nelle condizioni di
farlo, e bene: è noto che al momento l’Authority è poco più di una
scatola vuota per mezzi, personale e non solo. Per ora lui continua a
non sbilanciarsi: «Capiremo davvero quali sono gli spazi di operatività
dell’Agenzia, al di là delle cose previste dalla legge dell’Authority,
nel momento in cui cominceremo» ha detto oggi.
Altrimenti, il Cantone uomo delle istituzioni, non avrebbe accettato
di “sporcarsi le mani” con un incarico di prestigio sì, ma ad alto
rischio di consunzione. Deve crederci per aver accettato. Anche se era
pronto a lasciare l’ufficio del Massimario della suprema Corte di
cassazione: a novembre aveva presentato al Csm la richiesta di nomina a
procuratore aggiunto presso la procura del neonato Tribunale Napoli
nord. Voleva tornare a fare indagini, all’attività inquirente. Ora sarà
in prima fila sul fronte della corruzione, terreno altrettanto insidioso
senza perimetri geografici e politici.
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