Salvare il Vaticano II e al tempo stesso far tacere le voci
critiche; mostrare la Chiesa del XXI secolo, ferma nel proseguire la
linea del rinnovamento e dell’apertura indicata dal concilio
Per i cattolici, la canonizzazione è un procedimento giuridico e
un atto di fede. Dichiarare qualcuno santo vuol dire proclamare la
certezza che egli, sia pure con gli errori e le debolezze di qualunque
essere umano, ha «vissuto in modo eroico le virtù cristiane»: e che di
tale pratica di virtù ha dato prove concrete, che hanno lasciato il
segno.
Tale realtà va sottoposta a una vera e propria verifica processuale, con accurata escussione di prove e di testimoni.
Tale realtà va sottoposta a una vera e propria verifica processuale, con accurata escussione di prove e di testimoni.
Gli Atti di una canonizzazione, preceduta da fasi di verifica
preliminare (al termine di ciascuna delle quali il candidato santo viene
proclamato “Venerabile”, “Servo di Dio”, “Beato”), riempiono di solito
spessi volumi. Al termine di questo laborioso processo, che può essere
anche molto lungo (Francesco d’Assisi venne proclamato santo solo due
anni dopo la morte; per far santa Giovanna d’Arco, fatta ardere viva da
un tribunale inquisitoriale come eretica, c’è voluto quasi mezzo
millennio), nessuno che si dica cattolico può dubitare che chi sia stato
canonizzato sia davvero “santo”, cioè viva spiritualmente in eterna
grazia di Dio (“in Paradiso”, come si usa dire). La canonizzazione dei
santi è uno degli in verità pochissimi casi nei quali la Chiesa proclama
la propria infallibilità come speciale prerogativa concessale da Dio.
In altri termini, la canonizzazione è un fatto rigorosamente interno alla Chiesa cattolica, che si può intendere solo iuxta propria principia.
Obiettare che tale o tale santo avrebbe motivi storici o di altro tipo
per non sembrare poi troppo esemplare, è cosa tanto vana quanto inutile.
Durante il processo di canonizzazione, chiunque può addurre prove – e,
se è cattolico, avendone deve farlo – che possano inficiare il processo;
il farlo dopo non ha senso, in quanto la sentenza garantita
dall’infallibilità è per sua natura inappellabile; il sollevar dubbi
alla luce di altre valutazioni o di princìpi che non sono quelli della
Chiesa significa mischiare elementi culturalmente eterogeni fra loro.
Ciò premesso, non ha senso continuar a chiederci, ora che le causa di
canonizzazione di Angelo Roncalli e di Karol Wojtyła sono concluse, se
l’uno o l’altro dei due pontefici abbia davvero meritato la gloria degli
altari o se si sia trattato di una scelta pregiudiziale e unilaterale
da parte della Chiesa. La prima domanda, sarebbe ingenua; la seconda,
tautologica.
Ha invece senso, eccome, chiedersi che cosa queste due canonizzazioni
contemporanee significano in questo particolare momento della vita
della Chiesa, dal momento che si tratta di due papi entrambi molto amati
e popolari, entrambi fortemente carismatici, molto diversi però fra
loro non tanto e non solo sotto il profilo caratteriale, bensì anche
sotto quello della loro funzione nella storia della Chiesa.
Giovanni XXIII, un papa dotato di una vasta esperienza diplomatica –
era stato nunzio in due situazioni difficili, nella Turchia kemalista e
nella Francia di Vichy – è il pontefice “progressista” che ha “aperto la
Chiesa al mondo” con il concilio Vaticano II, correndo il rischio di
quello che Jacques Maritain definì «l’inginocchiarsi della chiesa
dinanzi al mondo», cioè dinanzi alla Modernità laica e agnostica,
cercando con essa il colloquio.
Giovanni Paolo II, un operaio che aveva lottato contro il nazismo e
un vescovo che si era impegnato in un difficile braccio di ferro con le
autorità comuniste della sua Polonia, aveva fama di essere “socialmente
avanzato” ma non “progressista” (il che non è la stessa cosa). Appena
arrivato al soglio pontificio, avviò una politica segnata da tratti
gerarchicamente e liturgicamente tradizionalisti, avversò in America
latina la “teologia della Liberazione” e sembrò frenare per più versi
l’applicazione dei decreti del Vaticano II.
Papa Francesco è a sua volta giunto al soglio pontificio cinto dalla
fama di avere decise simpatie tradizionaliste, quindi ispirate a cautela
nei confronti di quelle che – del resto alcuni decenni fa – sembravano
le “innovazioni” conciliari; ma era noto anche per un’apertura sociale
che non solo ha confermato, ma che è addirittura diventata, specie nei
confronti degli “ultimi della terra”, il sigillo del suo pontificato
vòlto tutto, e con grande decisione, alla moralizzazione della vita dei
vertici ecclesiali da un lato e alla lotta contro quella che
splendidamente egli stesso ha definito “la globalizzazione
dell’indifferenza” dall’altro.
L’elezione di papa Francesco è avvenuta in un contesto che lasciava intravedere una forte spaccatura verticale all’interno dell’alta gerarchia della Chiesa; ma proprio per questo un papato “debole”, attendista, non avrebbe fatto che peggiorare la situazione. Papa Bergoglio ha obbligato la gerarchia e i fedeli a scegliere, a dichiarare da che parte ciascun cattolico vuole stare. Ma egli si è anche impegnato a dimostrare che questa non è la Chiesa che lui ha voluto, bensì la Chiesa tout court, come dev’essere e come non può essere altrimenti. Per questo, le due canonizzazioni complementari di due papi che nella visione comune sono considerati “ai due estremi opposti” della testimonianza cattolica e della funzione pontificia gli erano indispensabili.
L’elezione di papa Francesco è avvenuta in un contesto che lasciava intravedere una forte spaccatura verticale all’interno dell’alta gerarchia della Chiesa; ma proprio per questo un papato “debole”, attendista, non avrebbe fatto che peggiorare la situazione. Papa Bergoglio ha obbligato la gerarchia e i fedeli a scegliere, a dichiarare da che parte ciascun cattolico vuole stare. Ma egli si è anche impegnato a dimostrare che questa non è la Chiesa che lui ha voluto, bensì la Chiesa tout court, come dev’essere e come non può essere altrimenti. Per questo, le due canonizzazioni complementari di due papi che nella visione comune sono considerati “ai due estremi opposti” della testimonianza cattolica e della funzione pontificia gli erano indispensabili.
È una sfida, che somiglia molto alla quadratura di un cerchio.
Salvare il Vaticano II e al tempo stesso far tacere (e non semplicemente
ordinare che tacciano) le voci critiche nei confronti di esso; mostrare
una Chiesa di adesso, la Chiesa del XXI secolo, ferma nel proseguire la
linea del rinnovamento e dell’apertura indicata dal concilio e al tempo
stesso fedele a una tradizione quasi bimillenaria che indica la strada
del confronto con “il mondo”, ma non dell’acquiescenza nei confronti del
suo spirito. Si è detto spesso, in questi mesi, che l’unico modo per
legittimare una simile quadratura del cerchio sarebbe la richiesta di
una nuova esplicita verifica e di un nuovo impegno della gerarchia su
una strada chiaramente, limpidamente, indicata e accettata.
Un nuovo concilio. Che si prospetta d’altronde anche come un luogo
nel quale istanze inconciliabili potrebbero affiorare. Un’occasione
imperdibile e un inevitabile rischio. Questa appare, oggi, la sfida di
questo gesuita arrivato “quasi dalla fine del mondo”, che ha ridotto al
minimo i segni di solennità e di autorità del suo ufficio e che, in un
mondo segnato come non mai dalla barbarie della sperequazione sociale e
dallo spettacolo intollerabile del confronto tra l’opulenza dei
pochissimi e la miseria dei troppi, ingiuste entrambe, ha scelto di
chiamarsi come un Povero di otto secoli fa.
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