L'intesa tra al Fatah e Hamas ha un paio di precedenti negativi ma
questa volta il quadro mediorientale è diverso. Gli Stati Uniti contano
meno e i principali player della regione si stanno riposizionando
Dicono, israeliani e americani, che l’intesa raggiunta mercoledì
scorso tra l’ala politica laica e l’ala politica religiosa del
movimento palestinese li ha colti di sorpresa. Crederci, che siano stati
spiazzati, è difficile. Se è così, è semmai la loro ingenuità politica
che sorprende. Chiedersi se sia vero che non l’avessero previsto, che
non l’avessero previsto neppure i servizi segreti israeliani, come hanno
detto i loro capi a Haaretz, è comunque secondario. La
principale domanda riguarda la consistenza reale e la durata
dell’intesa. Al Fatah, partito guida dell’Organizzazione per la
liberazione della Palestina, e Hamas non comunicano tra loro dal 2007,
quando la fazione islamista assunse il controllo di Gaza con un violento
colpo di mano, costringendo all’esilio i dirigenti dell’Olp e sbattendo
in prigione quelli di loro che erano rimasti nella Striscia. Nel 2011,
al Cairo, ci fu un tentativo di riconciliazione. Fallito. Nel 2102 ce ne
fu un altro a Doha. Anch’esso fallito. I contenuti delle due intese
finite male erano grosso modo gli stessi del protocollo concordato a
Gaza nei giorni scorsi. Tra questi la costituzione di un governo
“tecnico” a termine, per il tempo necessario, alcuni mesi, per preparare
nuove elezioni politiche.
In realtà, il richiamo ai due precedenti insuccessi è fuorviante, non
implica che anche questa volta il “patto di unità” si debba rivelare un
miraggio, con grande beffa per i palestinesi di Gaza, Cigiordania e dei
campi libanesi e giordani scesi in strada a festeggiare entusiasti
l’accordo siglato nella residenza di Ismail Haniyeh, il capo del governo
di Gaza. Il conflitto israelo-palestinese e gli equilibri interni alla
realtà politica palestinese vanno sempre visti in relazione con lo
scenario mediorientale più ampio, in un continuo gioco di influenza
reciproca. Rispetto al 2011 e al 2012 la situazione mediorientale è
cambiata. Vale la pena osservare che nella regione c’è un nuovo muoversi
delle cose, c’è un intrecciarsi di situazioni che costituisce il
retroscena dell’intesa e al tempo stesso ne indica i possibili sviluppi.
Tutto fa pensare che questa volta il quadro complessivo renda più
plausibile la tenuta del “patto”. In ogni caso, è probabile che si sia
di fronte a un nuovo capitolo della vicenda palestinese, con al centro
anche la definizione della leadership futura.
Restando all’ambito dell’accordo, va innanzitutto tenuto presente il
ruolo dell’Egitto. È stato giustamente notato che uno degli artefici
dell’incontro di Gaza e membro influente dell’ufficio politico di Hamas,
Mousa Abu Marzouk, residente al Cairo, ha avuto il beneplacito
dell’uomo forte egiziano, Abdel Fattah al Sisi per prendervi parte. Come
si sa i Fratelli Musulmani e gli stessi dirigenti di Hamas in Egitto – i
due movimenti sono legati tra loro – sono sottoposti a una dura
repressione da parte del regime di al Sisi. Nei giorni scorsi, inoltre,
lo stesso al Sisi aveva avuto un colloquio con Mohammad Dahlan,
personaggio di grande potere tra i palestinesi di Cisgiordania. 52 anni,
conosciuto anche come Abu Fadi, a lungo responsabile dei servizi
segreti palestinesi, è in aperta rotta di collisione con Abu Mazen e la
sua cerchia, che accusa d’incapacità debolezza, corruzione e nepotismo.
Ricambiato con accuse di collaborazione con Israele e perfino di essere
dietro la morte di Arafat, fino all’espulsione da al Fatah. Dahlan è
popolare anche nei campi palestinesi in Giordania e in Libano, ha buone
relazioni con gli Emirati Arabi, dove vive in esilio, e con l’Egitto,
che vede in lui, data la sua popolarità anche a Gaza, un contrappeso al
potere di Hamas. Di recente sua moglie, Jalila, in visita nella
Striscia, ha annunciato in un’intervista a al Monitor l’intenzione di Dahlan di candidarsi alle presidenziali, o nelle liste di al Fatah o come indipendente.
L’unico in grado di tener testa a Dahlan, anzi di sconfiggerlo, per ammissione stessa di Jalila, sarebbe Marwan Barghouti, il Mandela palestinese nelle
carceri israeliane dal 15 aprile 2002. Nonostante i dodici anni
trascorsi in galera, Barghouti è il politico più popolare in Palestina
e, secondo tutti i sondaggi, batterebbe sia Abu Abbas sia Ismail Haniyeh
in un’eventuale corsa presidenziale. È considerato l’unico in grado di
negoziare un accordo con Israele, farlo accettare al suo popolo, unire
le fazioni palestinesi e avviare un processo di “verità e
riconciliazione” in un paese indipendente. Ma gli israeliani saranno
abbastanza lungimiranti da consentirgli di tornare libero e attivo?
Egitto, Israele, Turchia nella partita
Come si vede, Egitto e Israele, direttamente o indirettamente,
possono influire su quanto accade nel perimetro del potere palestinese. E
non sono i soli. La Turchia, l’altro grande player regionale, ha
lavorato negli ultimi anni per avere voce in capitolo in Medio Oriente,
sostenendo i Fratelli Musulmani e Hamas, mentre, nel frattempo, si
adoperava per il crollo del regime di Assad. Gli eventi sono andati
nella direzione opposta rispetto a quella auspicata da Recep Tayyip
Erdogan. Ma il premier turco non ha smesso di “fare politica” nella
regione. Con Israele sembra esserci volontà di tornare a relazioni
normali, riprendendo la trattativa sul risarcimento da parte israeliana
delle famiglie delle vittime del raid contro gli attivisti turchi di
Mavi Marmara, un episodio che aveva portato alla rottura tra i due
paesi. Intanto Ankara non ha fatto mancare il suo pieno sostegno al
“patto di unità” tra palestinesi.
Su un altro versante, quello iraniano, si registrano importanti
novità, sia sul fronte della questione nucleare sia su quello dei
rapporti con i sauditi e dunque con il mondo sunnita. Il governo di
Hassan Rouhani procede lungo il suo percorso riformista, tenendo fede
agli impegni assunti sul nucleare (anche, tra l’altro, facendo fuori
dalla squadra dei negoziatori quelli che remano contro) e, attraverso
l’ayatollah Hasheni Rafsanjiani, ha aperto un’inedita linea di dialogo
con Riyadh. L’Iran è stato uno dei sostenitori di Hamas, ma lo scoppio
del conflitto in Siria, ha messo in discussione la relazione tra il
regime sciita e il movimento sunnita.
Il declino americano nel puzzle mediorientale
I diversi pezzi del mosaico mediorientale, tutti per aria dopo la
guerra in Iraq, peraltro non chiusa, e con il conflitto in corso in
Siria, si stanno riposizionando, e in questo fermento si ripropone la
questione palestinese, con i suoi complessi intrecci con i diversi
centri di potere nell’area. Il fermento nella regione è anche legato
all’evidente e crescente disinvestimento americano in Medio Oriente,
dettato sia dalla crisi economica sia dal restringimento delle spese
militari sia dalla crescente capacità energetica dell’America, diventato
paese esportatore e non più strategicamente dipendente dal petrolio
mediorientale. C’è un evidente scollamento perfino nella relazione
speciale tra Usa e Israele, come testimonia – su un altro scacchiere –
la neutralità israeliana sulla questione ucraina.
L’insuccesso dei tentativi di John Kerry, tesi a rilanciare il
processo di pace israelo-palestinese, va visto anche in quest’ottica.
L’America non è più considerata, da Israele stessa, un giocatore
decisivo in Medio Oriente. Anche la riluttanza a immischiarsi nel
conflitto siriano è stata vista come un sintomo inequivocabile, è
considerata la spia di questa nuova fase di crescente disimpegno. Ed è
un bene. Forse è davvero l’inizio di un periodo nel quale i paesi, i
popoli, i governi della regione si assumano pienamente la responsabilità
del destino loro e della regione, cercando la via del dialogo, dopo una
lunga e travagliata storia di conflitti che hanno impoverito tutti. Lo
stesso patto di unità tra i palestinesi è un segno in quella direzione.
Il 24 aprile scorso, festeggiando i suoi novant’anni, l’icona della
sinistra israeliana, Uri Avneri, si è detto ottimista sul futuro del suo
paese e della regione. Parlando con Haaretz, ha detto:
“Avverrà un miracolo. Potrebbe avvenire in modo duro, forse preceduto da
una catastrofe. La coscienza dell’opinione pubblica israeliana deve
attraversare un cambiamento. Come quello che accadde quando Sadat scese
dell’aeroplano (arrivando in Israele nel 1977). Questa è l’essenza del
miracolo. Prima o poi i due popoli dovranno andare d’accordo”.
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