Corriere della Sera del 05/04/14
Tomaso Clavarino
KIGALI — Il passo è incerto, le
stampelle scivolano sul terreno sconnesso, le gambe fanno fatica ad
andare avanti. Prisca tuttavia rimane impassibile, continua a
camminare come se nulla fosse, a testa alta, senza nemmeno una
smorfia di fastidio sul viso. Sono ormai vent’anni che convive con
due protesi di legno e stoffa, cioè da quando, ad appena quattro
anni, ha messo un piede su una mina e le sue gambe sono saltate in
aria.
Era il maggio del 1994 e il Ruanda era nel pieno di quel
Genocidio che in tre mesi ha fatto quasi un milione di vittime.
Uccisi a colpi di machete, a bastonate, solo raramente con armi da
fuoco. Hutu contro Tutsi, amici che si sono trasformati in carnefici,
vicini di casa diventati brutali assassini. «Mi ricordo che era
mattino presto, sono arrivati come dei pazzi, hanno sfondato la porta
di casa, hanno preso i miei genitori, mia sorella maggiore, li hanno
portati nella chiesa di Shyorongi — racconta Prisca trattenendo a
fatica le lacrime —. E lì li hanno uccisi, a colpi di machete,
come bestie. Poi li hanno buttati nel fiume Nyabarongo». Lei è
riuscita a scappare, con la sorella minore, e ha iniziato a correre
per i campi. Fino a quando non ha calpestato una mina posizionata lì
dalle milizie Hutu Interahamwe. «Sono riuscita a salvarmi per
miracolo ma la mia vita è stata rovinata. Ho dovuto anche lasciare
la casa di famiglia perché i vicini, quelli che mi hanno sterminato
la famiglia, sono tornati ad abitare qui a fianco». Uno degli
effetti della politica di riconciliazione fortemente voluta dal
presidente Paul Kagame. Una politica che ha dato i suoi frutti
stabilizzando il Paese e aprendolo a investimenti stranieri (il
Ruanda ha un tasso di crescita medio del 8% negli ultimi cinque anni)
ma che ha solo coperto, senza eliminarle, le forti tensioni che
permangono nel Paese.
Il caso di Prisca non è isolato, sono
migliaia le persone che sono riuscite a sopravvivere alla mattanza di
venti anni fa ma che hanno dovuto subire amputazioni e mutilazioni
che ne hanno segnato in maniera indelebile il fisico oltre che la
mente. Come Dassan, 34 anni, quattordicenne all’epoca del
Genocidio, che durante quei tre mesi di follia e violenza collettiva
ha perso un avambraccio, oltre che l’intera famiglia. «Un gruppo
di Interahamwe è arrivato una sera nel nostro villaggio, qui al
confine nord di Kigali — ricorda seduto su di una poltrona nella
nuova casa che si è costruito da solo —. Hanno radunato tutti i
Tutsi nel campo sportivo, in cerchio, uno contro l’altro. Poi hanno
iniziato a picchiare e tagliare, con machete, pietre e bastoni di
legno. Uno dopo l’altro sono morti tutti. Io ho cercato di
proteggermi con il braccio sinistro. Loro colpivano, colpivano, fino
a quando sono svenuto. Devono aver pensato che fossi morto e mi hanno
lasciato lì. Quando mi sono svegliato mi sono accorto di non avere
più l’avambraccio, mi sono trascinato fino alla chiesa. Il prete,
del Burundi, mi ha aperto, mi ha disinfettato e portato nel primo
posto medico. Così mi sono salvato».
Dassan è stato fortunato
perché ha trovato un prete che ha deciso di salvargli la vita, non
come le migliaia di persone chiuse dentro la chiesa di Nyamata fatta
buttare giù a colpi di bulldozer dal parroco Hutu. Fils, Martha,
Adeline, Beatrice sono solo alcuni nomi di altre persone che sono
riuscite a salvarsi ma che porteranno per tutta la vita i segni di
quella che è stata una delle pagine più atroci e violente che la
Storia abbia mai vissuto. Persone che in un Paese rivolto verso il
futuro, che tenta di dimenticare il passato per ricostruire una
società unita, rimangono e rimarranno l’immagine di un passato
terrificante che potrebbe sempre tornare.
Ngaboy, un ex soldato
Tutsi del «Rwanda Patriotic Front», che ha perso un occhio e due
braccia nel corso degli scontri del 1994 lo dice a bassa voce: «Il
governo sta facendo molto per riconciliare il Paese, ma sarà un
lavoro lungo, doloroso, e non è detto che andrà in porto. Stanno
forzando un processo che dev’essere naturale, spontaneo, con il
rischio di soffocare tensioni latenti che, prima o poi, potrebbero
venire alla luce. Il Ruanda è come una pentola a pressione, basta
una scintilla di troppo per farlo esplodere».
Un’affermazione
che trova d’accordo Eugenie, 29 anni, che vive da sola in una casa
vicino a Rwamagana, nell’est del Paese. Viso dai lineamenti
delicati, occhi profondi, sguardo fiero ma sofferente, Eugenie ha
subito l’amputazione di entrambe le gambe nel luglio del 1994.
Scappata da casa, dopo aver visto la famiglia massacrata, si è
nascosta per una settimana tra i papiri, con le gambe nell’acqua
fino all’inguine. Quando l’hanno trovata non riusciva a
camminare. Le gambe erano necrotizzate e non hanno potuto far altro
che amputargliele. «In questi venti anni ho vissuto da sola, con
l’aiuto dei pochi amici rimasti ma nel silenzio del governo che,
per quelli come me, sopravvissuti ma con enormi problemi, ha fatto
ben poco — spiega Eugenie —. Nessuna possibilità di trovare un
lavoro, nessuna opportunità per provare a ricominciare una vita
dignitosa. Sono condannata a non muovermi da questa casa di terra e
lamiere. Le ferite del Genocidio per molti non si sono ancora
richiuse, sono aperte, profonde». Come per Angelique che con
naturalezza, seduta in un giardino nel quartiere di Remera a Kigali,
dice: «Perdonare? Prima di perdonare qualcuno è necessario che quel
qualcuno venga a chiedere perdono. Nessuno di quelli che hanno ucciso
mio padre e mia madre mi ha mai chiesto perdono».
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