Corriere della Sera del 02/04/14
Il bello dei rettori entrati (saliti?
discesi?) in politica è quella loro arietta non già, come si
potrebbe presumere, da primi della classe (antiquata, antiquatissima,
per carità!), ma da qualcosa di mezzo tra Candide e la Vispa Teresa.
Comune peraltro anche ad altri personaggi di simile parabola, come ad
esempio il sindaco di Roma, Ignazio Marino. L’arietta di chi dice:
guardate bene che io con i politici — sottinteso: quei lazzaroni,
quei farabutti — non ho niente a che spartire. Guardate che sono
allibito quanto voi e anzi ve ne racconto io una nuova. Guardate che
io mi occupo non dei pasticci che ho ereditato e che non sono miei,
ma di scrutare nuovi orizzonti e, soprattutto, di farvi vedere un
nuovo stile. Direttamente impersonato, non a caso, da me medesimo. Se
i rettori finiranno all’Inferno, dove è assai probabile che
finiscano, sarà per la loro incommensurabile, incontenibile,
vanità.
L’ultimo caso è quello di Stefania Giannini, terzo
rettore consecutivo, dopo Carrozza e Profumo, ad assidersi sul trono
del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Trono in quanto da lì si governa all’incirca un milione di
dipendenti e si spende, per il funzionamento, più di ogni altro
ministero.
Né il Rettore Primo, Francesco Profumo, né il
Rettore Secondo, Maria Chiara Carrozza, hanno lasciato esaltante o
incancellabile memoria di sé medesimi. Profumo, un ingegnere,
sembrava uomo con i piedi per terra. Anche se a insospettire avrebbe
dovuto essere il fatto che il governo Monti in cui militava era
quello che vantava il più alto tasso di rettori nella storia non già
d’Italia, ma di tutti i tempi e di tutti i paesi. Comunque sia, di
Profumo si ricorda solo la graziosa idea del campionato nazionale dei
primi della classe, teso a individuare e incoronare il Super
Primissimo di Tutte le Classi. Una cosa tra Dickens e De Amicis,
quanto mai adatta al terzo millennio. Della Carrozza viceversa, un
bioingegnere di cui si celebravano le virtù scientifiche e la
propensione all’eccellenza, non si ricorda nulla, dato che se non
proprio nulla, certo assai poco deve avere fatto.
Ammaestrato da
questi precedenti, il Rettore Terzo, la Giannini, di natura sua una
glottologa, appare fermamente intenzionata a lasciare duratura
traccia di sé. Ha dunque sdegnosamente smentito che i precari della
scuola siano mezzo milione e, ispirandosi al nominalismo e sfidando
l’aritmetica, ne ha determinato la consistenza in «poco meno di
centosettantamila». Salvo aggiungere che «ci sono anche 460 mila in
graduatorie d’istituto, 10 mila abilitati con Tfa, 70 mila
abilitati con Pas, 55 mila diplomati magistrali, e 40 mila idonei dei
vecchi concorsi». Un po’ criptico, ma non male.
Non contenta
della performance numerica, la Giannini si è poi cimentata in un
paio di occasioni con il pensiero vero e proprio, come quando,
parlando degli esami di accesso alle scuole di specializzazione «mi
piacerebbe — ha osservato — che mirassero a misurare
principalmente le competenze e l’attitudine relative alla
specializzazione futura». Perché, vien fatto di chiedere, che
cos’altro dovrebbero misurare? E, soprattutto, contestando la sua
collega Madia che aveva parlato di prepensionamenti per far spazio ai
giovani, ha vibratamente e insieme pensosamente asserito «non amo il
collegamento tra chi va a casa e chi entra. Un sistema sano non manda
a casa gli anziani per far entrare i giovani. È necessaria
un’alternanza costante». Precetto, quest’ultimo, di cui far
tesoro (come di quello sulla necessità della maglia di lana e altri
similari). Ma che forse non è di grande aiuto nelle presenti
circostanze, quando di ingresso di giovani son vent’anni che non si
parla.
Il manto che avvolge l’avvento in politica dei rettori
(come per altro, ma simile verso degli alti dirigenti della Banca
d’Italia) è la competenza, la probità, la dedizione all’interesse
nazionale e non di parte. La sostanza è una sottile, ma tenace idea
corporativa. L’idea, antica, che la democrazia è debole,
soprattutto in Italia, e che le sue piaghe devono essere medicate da
mani delicate ed esperte, non lasciate in balia dei tristi amori
dell’elettorato. Solo i corpi organizzati — l’accademia, l’alta
burocrazia, gli istituti finanziari — possono garantire e
proteggere l’interesse comune. In cambio, naturalmente, del
riconoscimento di una sorta di patronato perenne, di un diritto
inalienabile. Il risultato, la realtà che abbiamo sotto gli occhi, è
la pasta collosa e burbanzosa che avvolge la dimensione pubblica e
maschera la sua sostanziale paralisi. Meglio, molto meglio, la
politica.
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