Conviene far pesare al premier quei gruppi parlamentari "non suoi"
che gli facciano sudare il passaggio delle riforme. Per ottenere cosa?
Il controllo del partito
Diceva Mao Tse-tung che «la rivoluzione non è un pranzo di
gala». Ecco, oggi di certo non siamo in presenza di una rivoluzione, ma
altrettanto certo è che le riforme che sta tentando di portare avanti
Matteo Renzi rappresentano un punto di svolta storico per il paese, come
ulteriormente certa è la levata di scudi di un sistema che di quelle
riforme ha parlato per almeno trent’anni senza mai realizzarle e
rendendole così oggi più urgenti che mai.
Urgenza che nemmeno oggi viene colta, a volte osteggiata oppure
scambiata, volontariamente o meno, per mera ambizione personale. Alla
quale opporre dei no speculari, ovvero conditi da motivazioni che in
certi casi mal celano un più credibile “perché lo fa Renzi”. Ma
scendendo più in profondità in questa analisi e osservando le mosse di
questi giorni è possibile distinguere due fronti principali
nell’opposizione a Matteo Renzi.
La prima si riassume nel celebre slogan «abbiamo la costituzione più
bella del mondo», il cui ovvio sottotitolo recita “e quindi non si
tocca”. Si tratta dei più noti costituzionalisti del paese, che nei
giorni scorsi hanno redatto e sottoscritto un accesissimo appello
contro l’abolizione del senato, che vede tra i firmatari, oltre a
Gustavo Zagrebelsky, anche Stefano Rodotà, il quale nel 1985 firmava
invece una proposta di legge costituzionale per il superamento del bicameralismo perfetto in favore, si legge, del monocameralismo puro.
Trent’anni per cambiare idea sembrano un tempo sufficiente, ma il
dubbio che si tratti di un’opposizione meramente politica è quantomeno
legittimo. Tanto più se Rodotà non è il solo tra quei firmatari ad aver
fatto dietrofront, dal momento che anche Gaetano Azzariti, in tempi
molto meno lontani, si esprimeva
con decisione per quella riforma costituzionale contro la quale oggi
sottoscrive un appello dai toni catastrofisti. Appello seguito a
strettissimo giro dalle interviste rilasciate a Repubblica e a In mezz’ora
dal presidente del senato Piero Grasso, in piena continuità con
l’appello stesso e spalleggiato anche dalle dichiarazioni di Laura
Boldrini: «I costituzionalisti di peso vanno ascoltati».
Unendo questi puntini sembra chiaro quantomeno il tentativo di
un’azione di logoramento da parte di ambienti che a Matteo Renzi non
hanno mai guardato con favore e che oggi, di fronte alle sue riforme,
paventano una “deriva autoritaria” anzichè avanzare correttivi tecnici e
proposte di merito. Una tesi, quella della deriva autoritaria, che
forse nasce dalla scarsa abitudine a confrontarsi con l’attitudine al
fare anzichè con quella del parlare.
L’altro fronte principale che emerge nell’opposizione al governo
Renzi è quello politico e non è da andare a ricercare nell’opposizione
vera e propria, quanto più in quel Partito democratico il cui segretario
fa perfettamente rima col governo: Renzi. Il “correntone”
si sta organizzando sotto la spinta del segretario uscente Epifani e
del capogruppo alla camera Roberto Speranza, il cui ruolo di
rappresentanza di un intero gruppo parlamentare forse stride un pochino
con l’opportunità della sua presenza da protagonista a una riunione di
corrente. Nell’ombra paiono muoversi anche Bersani e Letta, i
fedelissimi dei quali erano tra i più numerosi alla riunione di ieri
sera. A distinguersi invece resta Gianni Cuperlo, che ciò che ha da dire
lo dice in sede di direzione nazionale e poi, se la sua linea non
passa, si accoda alle decisioni della maggioranza senza venire meno in
parlamento alla disciplina di partito della quale è rispettoso
discepolo.
Difficile tuttavia che il “correntone” aspiri a una caduta del
governo sulla riforma del senato o su quella del lavoro: ciò
significherebbe la prospettiva di elezioni anticipate (e quindi tutti a
casa) nell’eventuale presenza di una legge elettorale però valida
unicamente per la camera. Ergo, si finirebbe a creare il quarto governo
consecutivo non eletto dal popolo, il quale popolo potrebbe questa volta
vedere la misura definitivamente colma, come oltremodo colme di voti
sarebbero a quel punto le tasche del Movimento 5 Stelle. No, al
correntone non conviene la caduta di Renzi.
Conviene invece far pesare al premier quei gruppi parlamentari “non
suoi”, di derivazione bersaniana, che gli facciano sudare il passaggio
delle riforme. Lo scopo? Ottenere qualcosa in cambio. Che cosa? Il
controllo del partito. Guglielmo Epifani del resto è stato chiaro due
domeniche fa dalla Annunziata: «Il congresso è finito, Renzi è stato
segretario per due mesi e poi è diventato premier, occorre ora colmare
un vuoto che si è creato all’interno del Pd». Un vuoto al quale il
correntone pare abbia preso le misure e che voglia ora andare a
occupare, anche per compensare quella maggioranza renziana che regna
nella direzione del partito e che lo fa sembrare, a loro detta, il
comitato elettorale del presidente del consiglio.
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