Una sola critica è impossibile fare a Renzi: che della riforma del
senato non si sia discusso abbastanza. Anzi: il parlamento s'è
screditato e indebolito agli occhi dei cittadini proprio per decenni di
ritardi e ostruzionismi.
Chi ha messo Matteo Renzi e il suo programma di riforme nel
mirino avrà sicuramente occasione di sparare qualche colpo a palazzo
Madama.
Nonostante le ultime fibrillazioni tra Pd e Forza Italia è difficile
che evapori l’ampia maggioranza che s’era aggregata intorno al patto del
Nazareno, però incidenti di percorso sono possibili. Per fortuna è
invece impensabile che questi tentativi possano essere in alcun modo
favoriti dal presidente del senato: per quanto si sia fatto tirare
dentro una polemica per lui impropria sul merito delle riforme e sui
rapporti di forza parlamentari, Grasso ha troppo a cuore il senso del
proprio ruolo per esporsi a ulteriori critiche. Oltre tutto sapendo che
il suo lavoro sarà scrutinato adesso con particolare attenzione.
Nell’ampia gamma di modifiche contenute nel disegno di legge di
riforma costituzionale del governo c’è spazio per correzioni e
miglioramenti. Perfino dalla scoppiettante conferenza stampa di Renzi,
Boschi e Delrio s’è capito che la riforma del senato è un cantiere
aperto, del quale (per il premier) sono fuori discussione solo le
fondamenta: senatori non eletti direttamente e non retribuiti, nessun
potere di voto su fiducia e bilancio.
Sarà interessante seguire l’iter di una riforma sulla cui
realizzabilità nessuno avrebbe mai scommesso un euro. A caldo, la sera
del patto del Nazareno, anche noi avevamo concentrato i commenti sull’Italicum,
avvertendo che la pur difficile riforma elettorale sarebbe stata
comunque molto più agevole da portare a casa che non l’attacco allo status quo del bicameralismo e dei poteri delle Regioni.
Di tutti gli argomenti critici possibili, gli avversari di Renzi
fuori e soprattutto dentro il Pd dovranno evitarne solo uno, pena
plateale figuraccia e smentite troppo facili: che la fine del
bicameralismo sia una una decisione «affrettata» e che sia necessario
«prendere altro tempo».
È una barriera che è stata travolta subito, ieri, senza entrare nel
merito del progetto, da Napolitano: della necessità di chiudere con la
duplicazone di funzioni e con l’elefantiasi parlamentare il capo dello
stato s’è espresso «da tempo». «Da tempo» vuol dire che il sistema
politico ha riconosciuta questa “urgenza” addirittura trent’anni fa,
senza mai riuscire a combinare nulla per un motivo semplice che i
cittadini a un certo punto hanno capito benissimo: non per le alte
ragioni democratiche accampate oggi dai conservatori dell’esistente, ma
perché la riforma comportava un dimagrimento del sistema politico
medesimo.
Che da questo atteggiamento, da questi ritardi, da questo sostanziale
ostruzionismo, sia poi discesa l’impotenza parlamentare, con essa lo
scadimento della credibilità dell’istituzione e infine la vera
degenerazione della qualità democratica del paese, questo è un concetto
che stranamente sfugge ad abituali fustigatori dei vizi nazionali come
Zagrebelsky e Rodotà, per non dire di Beppe Grillo.
La verità è che ci sono tante rendite di posizione che vengono messe
in pericolo in questa stagione. Comprese quelle degli eterni critici di
un sistema che anche a loro fa comodo rimanga eternamente
immodificabile.
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