FRANCESCO MERLO
La Repubblica 29 aprile 2014
È potassio eversivo la banana
antirazzista. Rimanda alla posizione eretta della dignità perché è
curva come la colonna vertebrale e come la verità secondo Nietzsche.
La banana di Dani Alves disarma il razzismo più dei discorsi di
Abramo Lincoln ed è magnifica la decisione di farne il simbolo dei
mondiali che il 12 giugno si apriranno a San Paolo.
Matteo Renzi e Cesare Prandelli
mangiano una banana contro il razzismo
IL MORSO di quel calciatore mulatto di
trent’anni, che raccatta da terra e mangia il frutto della vergogna
vigliacca e impunita perché protetta e nascosta dalla folla, ha
infatti il ritmo della samba allegra di Josephine Baker che mostrava
al mondo quant’era bella la scimmia esotica e nera coprendo e
scoprendo con un tutù di banane il corpo più desiderato della
Terra. Ecco perché in un solo giorno è stato più efficace del film
Dodici anni schiavo l’imprevisto spettacolo della banana in calcio
d’angolo che la velocità e la spontaneità del web hanno reso più
popolare dei Papi santificati dai Papi.
Probabilmente Alves non sa che lì
dentro, in quel gesto veloce e denso che passerà alla storia come il
pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos, c’è il riassunto di
due secoli di Ironia: dall’uso degli sberleffi contro il potere di
Goldoni alla sapienza di Chaplin che mostrava al mondo spaventato
quant’era ridicolo Hitler, da “Banana Boat Song” di Harry
Belafonte, il canto dei lavoratori giamaicani (“Come, Mister Tally
Man, / tally me banana, vieni, signor padrone / a contare le mie
banane”) sino alla riserva di umorismo proletario e alla potenza
della satira del nostro Altan che, già prima di Dani Alves, aveva
dimostrato che la banana è di sinistra (ma “il banana” è di
destra).
C’è pure, nella sapienza naturale di
Alves, un’intera enciclopedia della provocazione, la stessa
riassunta dalla banana colta e colorata di Andy Warhol sulla
copertina delle canzoni più esplosive di Lou Reed, quelle
dell’eroina e dei lacci emostatici, “I am waiting for my man / 26
dollars in my hand”, con il bianco che trova appunto il suo angelo
nero nel ghetto di Harlem. E c’è, ancora, un trattato di
tolleranza nel rito semplice dei capocomici e dei commedianti che in
tutte le epoche disinnescano l’odio e la maleducazione del pubblico
raccogliendo gli ortaggi e la frutta sino all’atto estremo di
gustare appunto la banana dell’offesa, trasformata nel suo
contrario come in quel manifesto commissionato contro il bullismo ad
Oliviero Toscani: la foto di una banana con la didascalia “uomo”
e poi la foto di un pisello con la didascalia “bullo”. Questa
banana che ha seppellito il razzismo è infine politica, perché
affianca l’antologia della risata alla fenomenologia dello spirito
della libertà. Ed è bello dedicarla non solo a Balotelli ma
soprattutto alla nostra ex ministra, la signora Kyenge, che a Cantù
fu accolta dai razzisti della Lega a “bananate”, e purtroppo a
nessuno degli indignati d’Italia venne in mente di mangiarne una
come Gargantua e Pantagruele mangiarono il Mondo. Del resto anche
nella Mosca tetra dell’Urss la banana era il Mondo, una specie di
Macondo, il sapore morbido e tuttavia croccante della fuga perché
era l’unico frutto straniero che il regime riusciva ad importare
grazie all’asse con Cuba, che dagli anticomunisti veniva
assimilata, con un cortocircuito ideologico, alle altre famigerate
dittature filo statunitensi del Centro America: Panama, Nicaragua,
Honduras... A riprova che la risata è una declinazione della libertà
queste repubbliche delle banane ispirarono uno dei primi e più
felici film di Woody Allen ( Il dittatore dello Stato libero di
Bananas ). E la repubblica delle banane è infatti l’insulto che
periodicamente ci lanciano i giornali stranieri, la metafora che
accompagna tutte le gaffe di Berlusconi, detto appunto “il banana”.
Una meraviglia di partita è stata
dunque quella di domenica tra il Barcellona e il Villareal, una vera
festa di liberazione perché per la prima volta un gesto abbagliante
come un fulmine ci ha affrancato dall’ipocrita venerazione
dell’invincibilità dello stadio. La banana di Alves ha finalmente
trasformato in intelligenza critica il nostro oscuro e preoccupato
biasimo del razzismo gridato dalle curve dove gli ultras ricoverano i
loro problemi pesanti e i loro feroci conti aperti con il mondo. Non
infatti le leggi speciali, gli elicotteri che fanno vento ed emettono
fasci di luce rossa, le prediche ideologiche e l’esibizione della
forza non usata, ma l’ironia spavalda della vecchia banana ha
smontato l’anomia dello stadio, la dimensione del fuorilegge, del
luogo extraterritoriale dell’impunità che nel mondo è forse più
antica delle corna dell’arbitro, ma non del razzismo.
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