Corriere della Sera del 06/04/14
Sergio Rizzo
Qualche annetto di pazienza. Soltanto
qualche annetto, e poi i superburocrati e i manager di Stato potranno
recuperare almeno in parte il taglio alle retribuzioni imposto a
partire da un paio d’anni fa, quando era in carica il governo
guidato da Mario Monti. Perché, anche se nessuno se n’è accorto,
il tetto è mobile. E si muove piuttosto velocemente, visto che in
sei anni è già salito di 37 mila euro.
Ricordate quel drammatico
autunno del 2011? Lo spread fra i Bund tedeschi e i titoli di Stato
decennali italiani veleggiava oltre quota 500 e l’ex rettore della
Bocconi, subentrato a Silvio Berlusconi, si preparava a somministrare
al Paese l’ennesima cura da cavallo. Tagli alle pensioni, anticipo
dell’Imu, massacro delle Province. E via di questo passo. Ma fra i
vari provvedimenti c’era anche un’amara sorpresina per gli
altissimi dirigenti dello Stato, che sarebbe stata poi estesa ai
manager delle aziende controllate dai ministeri. Ovvero, il
controverso tetto a retribuzioni che però negli anni di vacche
apparentemente grasse erano letteralmente impazzite. Da una rapida (e
piuttosto complicata) ricognizione saltarono fuori cose piuttosto
singolari. Per esempio, che il capo della polizia italiana portava a
casa più del doppio del suo collega di Scotland Yard. O che un capo
di gabinetto di ministero poteva guadagnare il triplo del presidente
della Repubblica. Si decise allora che nella Pubblica amministrazione
nessuno avrebbe potuto guadagnare più del presidente della Corte di
cassazione. Tutto compreso, ovviamente. E questo per evitare furbizie
varie, come quella della moltiplicazione degli incarichi: tecnica ben
nota e capace di spingere i compensi pubblici di alcuni manager ben
oltre il milione di euro. Faceva scuola, a questo proposito, il caso
del presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, accreditato di
introiti per 1,2 milioni.
Non era certo la prima volta che qualcuno
provava a mettere un freno alle retribuzioni pubbliche. Ci aveva già
provato l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, tentando di
parametrare i compensi alla media europea: l’obiettivo in quel caso
erano le paghe dei parlamentari, anche se poi quel parametro venne
esteso a tutti i dirigenti pubblici. La cosa tuttavia non andò in
porto. Tanto evidente fu l’impossibilità, accertata da una
commissione guidata dall’ex presidente dell’Istat (e
successivamente ministro del Lavoro) Enrico Giovannini, di
individuare nei principali Paesi dell’Unione Europea figure
corrispondenti ai superburocrati nostrani al fine di calcolare la
famosa media. Nell’occasione qualcuno ebbe il sospetto che si fosse
allargato a dismisura il campo di applicazione di quel principio
proprio per farlo saltare. E mai la famosa battuta attribuita a
Giulio Andreotti («A pensare male si fa peccato ma quasi sempre ci
si indovina») risultò più calzante a un caso concreto.
Ancor
prima di Tremonti, però, avevano tentato il suo predecessore Tommaso
Padoa-Schioppa e Romano Prodi. La seconda (e ultima) Finanziaria del
secondo breve governo dell’ex presidente della Commissione europea
aveva infatti già stabilito come limite per le retribuzioni dei
mandarini di Stato lo stipendio del presidente della Cassazione. Ma
anche questo si rivelò un buco nell’acqua. Prodi andò ben presto
a casa, e il governo Berlusconi che lo sostituì nello sgradito
compito di applicare quel tetto con un decreto ministeriale, dopo
aver cincischiato un paio d’anni arrivò alla conclusione che quel
limite forse era valido, ma soltanto per gli incarichi accessori.
Effetti pratici: zero virgola zero.
Monti riuscì dunque dove Prodi
e Tremonti avevano fallito. Soltanto che mentre alla fine del 2007 il
tetto massimo allineato allo stipendio del presidente di Cassazione
risultava pari a 274 mila euro, quando il decreto salva Italia entrò
in vigore era già salito a 293.658 euro e 95 centesimi. Per superare
di slancio, nel 2012, i 300 mila euro. Esattamente, 302.937 euro. Ed
ecco che a febbraio di quest’anno il Dipartimento della funzione
pubblica annunciava freddamente che «con nota del 23 gennaio 2014,
il ministero della Giustizia ha comunicato che nell’anno 2013 il
trattamento economico annuale del primo presidente della Corte di
cassazione, comprensivo di tutti gli emolumenti spettanti in virtù
della carica ricoperta, ammonta a euro 311.658,53».
La ragione è
che mentre le buste paga del pubblico impiego sono state
sostanzialmente bloccate per cinque anni, quelle della suprema
magistratura continuano a lievitare, recuperando largamente il costo
della vita grazie a una scala mobile che risulta piuttosto generosa.
Nel solo ultimo anno, stando alle tabelle Istat di rivalutazione
monetaria, sono cresciute di oltre 5 mila euro più dell’inflazione.
Trasformandosi così anche in una specie di ascensore per i compensi
dei superburocrati, che vengono di conseguenza trascinati lentamente
verso l’alto. Cin cin.
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