domenica 15 febbraio 2015

Nella capitale dei filorussi 
«Così vinciamo contro i fascisti».


Corriere della Sera 15/02/15
Lorenzo Cremonesi
Ma ci sarà davvero la fine dei combattimenti? Praticamente nessuno ci crede, qualcuno spera, tanti si preparano al peggio. Ieri, 40 minuti dopo l’ora fissata per l’inizio del cessate il fuoco (da diversi mesi i separatisti hanno adottato il fuso di Mosca, un’ora avanti rispetto a Kiev), effettivamente a Donetsk non si sparava più. Eppure poco prima, allo scoccare della tregua, la capitale dei ribelli filorussi era ancora una città in piena guerra. Il rombo dei duelli di artiglieria era costante, alcuni scoppi sembravano molto vicini al centro, altri più distanti, ma non meno minacciosi. Un quadro da emergenza continua. Le strade sono illuminate, però totalmente prive di traffico. Le abitazioni appaiono per lo più vuote, quartieri interi semiabbandonati, si stima che soltanto il 30% del milione di abitanti sia rimasto, tanti fuggiti nell’Ucraina occidentale, ma forse in numero maggiore verso il confine russo.

Un’osservazione viene spontanea arrivando dalle regioni controllate dal governo di Kiev. Se i militari ucraini appaiono pessimisti, delusi, sulla difensiva, le milizie ribelli sostenute da Mosca si dimostrano invece ottimiste, con il morale alle stelle, rinvigorite dalle recenti conquiste territoriali (pare oltre 500 km quadrati), certe di poter definitivamente occupare l’enclave della cittadina di Debaltsevo nelle prossime ore. «Benvenuti giornalisti! Venite a raccontare le nostre vittorie contro i fascisti», dicono sorridenti i miliziani di guardia al posto di blocco all’entrata di Donetsk. È sufficiente dire «reporter italiano» e neppure sfogliano il passaporto. Tutto diverso dai visi lunghi e le occhiate preoccupate tra i soldati ucraini solo 5 km più indietro. «Niente foto, andate via veloci», ordinano perentori dopo l’accurato controllo al lasciapassare ottenuto in seguito ad una lunga trafila burocratica.

Il viaggio attraverso le province della guerra nel giorno più lungo della speranza per la sua fine comincia a Velikonovoselovka, l’unico punto di passaggio nel settore centrale del fronte. Donetsk è a soli 70 km. Ma necessiteranno 7 ore per arrivarci, di cui 5 in attesa del documento ucraino. In coda sono un centinaio di persone. Fanno i pendolari tra lavoro e famiglia. Ogni tanto folate di vento portano l’eco dei rombi sordi della battaglia feroce per Debaltsevo, una cinquantina di chilometri più a nord. Parliamo con una dozzina di loro: nessuno crede alla tenuta degli accordi. «A Kiev il presidente Petro Poroshenko ha tradito le sue promesse. Governa un Parlamento corrotto, un gabinetto di ladri», sussurra Vasilij Kosmic, 36 anni, agronomo, che va a trovare i due figli. Una donna sulla trentina se la prende invece con i governi europei: «Sono deboli, divisi. Hanno paura di Putin e così lasciano che faccia il bello e il cattivo tempo in Ucraina». Una professoressa di liceo, Nelle, 33 anni, accusa a sua volta i ribelli filorussi. «Hanno violato tutti i precedenti accordi per il cessate il fuoco. Li ho visti con i miei occhi piazzare le artiglierie e sparare. Adesso violeranno le nuove intese», esclama.

Quando alle 16.30 locali otteniamo finalmente l’agognato documento una sottile nebbia si aggiunge alle ombre della sera. Ai cinque posti di blocco (tre ucraini e due dei filorussi) nella terra di nessuno sono fermi decine di camion pesanti. Alcuni autisti hanno deciso di trascorrere la notte qui, sperando che domani (oggi per chi legge, ndr ) la strada possa essere sicura. Più ci avviciniamo al primo punto controllato dai ribelli e più impera il deserto. Campagna piatta. A sinistra le abitazioni devastate da esplosioni e incendi della vecchia cittadina industriale sovietica di Marjanka rappresentano il fantasma dei combattimenti della primavera scorsa. L’entrata a Donetsk arriva molto più facilmente del previsto. Ci rechiamo sul luogo dove alle due del pomeriggio un colpo di mortaio ha causato la morte di tre civili e il ferimento di altri cinque. È avvenuto di fronte alle vetrine di «Entourage», un negozio di mobili. Adesso alcuni operai stanno fissando cartoni al posto dei cristalli sfondati. Dall’altra parte della strada l’onda d’urto ha divelto la pensilina di una fermata del bus. A terra macchie di sangue rappreso, calcinacci, vetri infranti. «Prego. Con la mia testa non ci credo. Ma nel cuore spero, mi auguro, che il cessate il fuoco possa tenere. È la nostra ultima possibilità di pace», dice Helena, una dentista 45enne venuta a deporre una rosa sul selciato arrossato. A deludere le sue preghiere resta il tambureggiare continuo delle artiglierie. «Io sono ucraina. Parlo la lingua ucraina. Sono innamorata della cultura ucraina. Però non capisco il governo ucraino. Doveva fare il bene della sua gente. Ma si è limitato ad arricchire una ristretta classe di oligarchi», dice frettolosa Evjenia, una 31enne che se avesse avuto i soldi, confessa, sarebbe scappata nella nuova Crimea pro russa. All’avvicinarsi dell’ora X per il cessate il fuoco Donetsk è disperatamente vuota.




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