venerdì 27 febbraio 2015

L’ira del premier: Pierluigi come Bertinotti ma non ha i voti


GOFFREDO DE MARCHIS
La Repubblica 27 febbraio 2015
La verità, dice Renzi, è che la minoranza del Pd si sta dividendo, i risultati del governo li stanno spiazzando, «stiamo facendo tanto e non se l’aspettavano ». Dunque la diserzione di alcuni dissidenti dalla riunione di oggi, l’offensiva di Pier Luigi Bersani si spiega così: «Non sarà che per tenere insieme un gruppo sempre meno coeso, sempre più spaccato, paga solo l’attacco frontale e violento?». Il premier ha vissuto lo strappo come una reazione isterica dei suoi oppositori. «Se non si fanno riunioni, non va bene. Se siamo collegiali e ascoltiamo non va bene uguale », dice ai collaboratori riuniti nel corridoio davanti alla sua stanza a Palazzo Chigi. L’altra verità di Renzi è che stanno andando in porto molti provvedimenti e i numeri della minoranza per farli fallire non ci sono.
Le critiche dell’ex segretario sono dunque sterili inutili. E’ vero che oggi molti lo seguiranno assentandosi dalle riunioni tematiche del Nazareno. Ma poi in Parlamento? Per far saltare l’Italicum alla Camera i dissidenti avrebbero bisogno di 60 voti. «Non ce li hanno», garantisce il premier. E allora? «Bersani che vuole fare? Trasformarsi nel Bertinotti del 2015? Ma non ha la forza», ripete Renzi in quel corridoio. Il riferimento è alla sfiducia di Rifondazione comunista votata nel 1998 contro Romano Prodi, l’atto di sepoltura dell’Ulivo. E non è un riferimento casuale perché l’ex sindaco è convinto che l’obiettivo non siano tanto le leggi in sé, ma lui e il suo governo. E pensare, è il ragionamento del premier, «che ho convocato una riunione dal titolo idee in libertà. Io sto lì e ascolto per 4 ore. Perché si arrabbiano?».
L’ascolto non significa che l’esecutivo tornerà indietro. Giammai. Il Jobs act, ricorda Renzi, è stato votato dalla direzione. L’Italicum idem. La riforma costituzionale pure e non solo. Ha finito il suo cammino alla Camera e manca solo il voto finale fissato per il 10 marzo. «Lo ha votato anche la minoranza precisando che avrebbe dato il via libera anche nel passaggio conclusivo». Neanche i dissidenti hanno molti margini per fare dietrofront.
Eppoi Renzi ha le prove che tanti, in quel gruppo di ribelli, stiano cominciando a riflettere. «Una parte di loro comincia a credere che la posizione di scontro non abbia alcun senso». Viene negato lo sgarbo ai capigruppo e in particolare a Speranza per l’appuntamento di oggi. «E’ una riunione come tante. Dicono che sono un uomo solo al comando e quando vogliamo discutere scappano. Non capisco, è un atteggiamento inccomprensibile ». Ma forse, è la posizione di Palazzo Chigi, la minoranza sta perdendo le occasioni dello sgambetto al premier e fatica a ritrovare la compattezza delle elezioni di Sergio Mattarella, strattonata da quello che si muove a sinistra del Pd, movimenti ai quali guardano alcuni di loro a cominciare da Pippo Civati. Og- gi, per esempio, Francesco Boccia sarà al Nazareno per «parlare, nei miei 5 minuti, di fisco». Non è detto che questo segnale confermi la tesi della spaccatura, ma Renzi dice ai suoi collaboratori che «siamo alle barzellette, tutto questo fa ridere. Anche perchè molte delle modifiche apportate alla riforma costituzionale e all’Italicum sono state decise da loro. Il punto è che stiamo facendo tanto e non se lo aspettavano ». Ai ribelli verrà a mancare anche l’occasione per denunciare il colpo di mano del governo. «Le opposizioni torneranno in aula e loro fanno l’Aventino proprio in questo momento?». In fondo il dialogo con Beppe Grillo sulla Rai, può diventare una chiave per far tornare il Movimento 5stelle in aula anche il 10 marzo. E la delicata questione di una legge costituzionale votata in un emiciclo semivuoto cadrà davanti alle immagini.
La tregua nel Pd comunque si è rotta. Ricomincia un confronto a tutto campo, così come lo ha descritto Bersani nell’intervista ad Avvenire . Il fattore numerico diventa fondamentale. Se davvero la minoranza non ha le truppe di almeno 60 ribelli non riuscirà ad approfittare della rottura del patto con Berlusconi. Era successo con il voto per la presidenza della Repubblica, con una momentanea unità del Pd. Ma tutto era partito dall’unità dei dissidenti di fronte a certi nomi fatti uscire dal governo. Oggi per rivedere questa compattezza ci si è dati appuntamento alla convention del 21 marzo, un rassemblement di tutta la sinistra contrapposta alle politiche di Renzi. Questo, secondo il premier, spiega l’attacco violento e frontale. Bisogna alzare i toni anche per non farsi scavalcare da Maurizio Landini e quindi essere schiacciati invevitabilmente sulla linea del segretario Pd. Però ci sono passaggi preliminari. E Bersani ha indicato il primo: il voto finale sull’abolizione del Senato. Lì può andare in scena la resa dei conti.

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