Si stanno già affilando le armi per delegittimare questo
pontificato o per declassare il magistero a quello di un "papa pastore"
dal profilo teologico trascurabile
Papa Francesco ha dato forma al suo atto magisteriale più forte,
dopo quasi quattro mesi di pontificato, con la messa a Lampedusa.
Interprete di un’idea teologicamente forte, secondo cui la celebrazione
dell’eucarestia è l’atto più pubblico e più solenne di tutte le altre
possibili azioni e documenti della Chiesa, Francesco ha messo sulla
scena della periferia dell’Europa il centro stesso della vita della
Chiesa, con un rovesciamento di prospettiva tipico di un papa venuto
dall’Argentina.
Ma la messa celebrata a Lampedusa è anche la rappresentazione del
momento particolare nella storia del papato contemporaneo, in questa
fase di transizione tra Benedetto XVI e Francesco: una transizione
ancora in corso, imperfetta e incompiuta. Fa parte del mansionario del
papa una certa “solitudine istituzionale”, di cui fece le spese anche
Giovanni XXIII. Come papa Giovanni, anche papa Francesco ricopre il
ruolo di un papato di ricostruzione: ricostruzione del tessuto
ecclesiale di fronte alle incomprensioni (talvolta nutrite ad arte) dei
mass media; di un linguaggio teologico che non sia accademico ma
pastorale. Di un’immagine del papa come pastore più che come principe.
In questo senso il paradosso di Francesco è analogo a quello di
Roncalli, o al “mistero Roncalli”: un papato destinato a ripristinare
nella Chiesa i salutari e tradizionali strumenti della comunione
ecclesiale (la collegialità tra i vescovi e il papa, la sinodalità ad
ogni livello della Chiesa) deve contare sulle forze di una persona sola,
sulle intuizioni del vescovo di Roma, sulla sua capacità di governare etsi Curia non daretur
– come se non ci fosse la Curia romana, ancora interamente formata da
uomini nominati dal predecessore e molti dei quali evidentemente
appartenenti ad un’altra era teologica.
Ogni pontificato, nella sua fase di rodaggio e di transizione, è
soggetto a meccanismi di adattamento rispetto all’ambiente circostante.
Questi meccanismi dipendono da contingenze interne alla Chiesa come da
variabili esterne, e ogni nuovo papa sa che la gestione della
transizione non può contare sul nudo appello al potere primaziale: in
altri termini, il nuovo papa deve negoziare l’uscita di scena del
vecchio entourage e delle vecchie parole d’ordine per fare spazio
gradualmente al proprio programma e agli uomini con cui metterlo in
pratica.
Con le straordinarie circostanze della transizione tra Benedetto XVI e
Francesco, vi sono elementi che parlano di questa negoziazione in
termini di compromesso (la firma apposta all’enciclica scritta da
Benedetto XVI, la conferma di alcuni uomini-chiave del pontificato
Ratzinger come il liturgista Guido Marini) insieme alla ferma
dichiarazione di intenti di Bergoglio sulle nuove traiettorie del
pontificato (lo stile e i contenuti della predicazione mattutina,
l’iniziativa di Lampedusa).
L’elemento particolare è dato dal fatto che la solitudine
istituzionale di Francesco è data dall’assenza, a Roma oggi, di quella constituency
che lo ha eletto papa in un conclave celebrato in situazione di
emergenza. C’è da chiedersi quanti di quei cardinali che lo elessero il
13 marzo oggi lo rieleggerebbero, se sapessero degli straordinari atti
di papa Francesco di questi primi mesi. Ma c’è anche da essere sicuri
che una parte del cattolicesimo mondiale, quella più orfana di un
ratzingerismo declinato in termini di ideologia neoconservatrice, sta
già affilando le armi per delegittimare questo pontificato o per
declassarne il magistero a quello di un “papa pastore” dal profilo
teologico trascurabile.
Le reazioni di Giuliano Ferrara (sul Foglio di ieri) e di
Fabrizio Cicchitto («va affermata una seria e reale autonomia dello
Stato dalla Chiesa») sono solo le più pubbliche, ma non le più sottili
né le più insidiose: ma rappresentano bene le reazioni del mondo
politico di fronte ad un cattolico sociale come Bergoglio, per
comprendere il quale idee come laicità, autonomia tra Stato e Chiesa,
libertà e diritti richiedono una complessa operazione di traduzione
rispetto al periodo di Ratzinger – Benedetto XVI. Con papa Francesco
deve radicalmente ripensarsi la vulgata bipartisan sul cattolicesimo
come colonna di un mondo liberale-liberista: il costo sarà ben più alto
del mandare al macero libri già in bozze – libri che dopo il 13 marzo
2013 non hanno più molto da dire.
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