Editoriali
La Stampa 25/07/2013
Da tanti anni seguo la politica, ma mai mi
era capitato di assistere a una commedia come quella che, sotto i nostri
occhi distratti, si sta svolgendo in questi ultimi giorni di luglio.
Breve riassunto della commedia.
La posta in gioco, innanzitutto. C’è un disegno di legge
governativo che non abolisce affatto il finanziamento pubblico dei
partiti, ma si limita a ridurne progressivamente l’entità (mantenendolo
in piedi fino al 2017) e ad affiancarlo già a partire dal 2015 sia con
un nuovo meccanismo, il cosiddetto 2 per mille (il contribuente può
decidere di destinare a un partito una parte delle tasse che paga), sia
con una serie di agevolazioni (detrazioni sulle donazioni) e benefici
«in natura» (spazi in tv, locali, etc.).
Difficile prevedere, finché non saranno noti tutti i
dettagli, se il nuovo meccanismo porterà ai partiti più o meno risorse
di oggi (probabilmente qualcosa di meno), ma tutto si può dire tranne
che la legge preveda l’abolizione del finanziamento pubblico dei
partiti, visto che questi ultimi continueranno ad assorbire
considerevoli risorse pubbliche, anche se in forme diverse che in
passato.
Ed ecco le parti in commedia. Il governo, abbastanza
spudoratamente, finge che il suo disegno di legge abolisca il
finanziamento pubblico dei partiti (il primo articolo del disegno di
legge recita proprio così: «E’ abolito il finanziamento pubblico dei
partiti»). Nonostante il disegno di legge sia molto «comprensivo» verso
le esigenze di cassa dei partiti, questi ultimi non ci stanno e si
mettono di traverso, inondando il Parlamento di emendamenti per lo più
rivolti a meglio tutelare le esigenze di sopravvivenza dei partiti
stessi, e che per ora hanno già ottenuto l’effetto di far saltare il
percorso parlamentare previsto (notizia di queste ore). Ma anche i
partiti, e in particolar modo i rispettivi tesorieri, recitano la loro
parte in commedia: secondo loro gli emendamenti non servirebbero a
difendere i privilegi dei partiti, bensì a salvare la democrazia
(nientemeno!).
Ed ecco il colpo di scena: il disegno di legge governativo,
che fino a ieri pareva fin troppo generoso con i partiti, diventa
improvvisamente un baluardo anti-partitocratico, e il presidente del
Consiglio Enrico Letta, con i suoi appelli (pardon: tweet) a non
ritardare l’approvazione del disegno di legge, può ergersi come una
sorta di Quintino Sella, austero e rigoroso difensore della cosa
pubblica.
Non è tutto, però. Nel marasma si inseriscono le parti in
commedia minori. C’è chi, non pago che i partiti abbiano ancora almeno
quattro anni di introiti generosi e garantiti, ha il coraggio di
proporre la cassa integrazione per i dipendenti dei partiti, in un Paese
in cui i lavoratori che non possono ricorrervi sono milioni e milioni.
C’è chi, dentro Pd e Pdl, sembra essere davvero per l’abolizione
(anziché per la riduzione) del finanziamento pubblico dei partiti, ma
non osa fare una battaglia vera, a viso aperto e a muso duro, contro
l’apparato del suo partito. E c’è chi, come il neo-segretario della Lega
Maroni, rinuncia al finanziamento pubblico, ma non ora, se ne riparlerà
nel 2014.
Insomma, nessuno fa quello che dice, e nessuno dice quello
che fa. Con una sola eccezione, a quel che vedo: gli estremisti, anzi
gli «opposti estremismi» dei talebani della partitocrazia e dei suoi
nemici irriducibili. Solo loro non parlano con lingua biforcuta.
Talebani della partitocrazia sono innanzitutto i tesorieri dei partiti,
che hanno le idee chiarissime e difendono a spada tratta, senza
imbarazzo e senza vergogna, sia il principio del finanziamento pubblico,
sia l’idea che non debba essere solo simbolico. Nemici irriducibili
della partitocrazia sono il movimento Cinque Stelle e i Radicali, che il
finanziamento pubblico hanno dimostrato di volerlo abolire sul serio,
non solo a parole. Il movimento Cinque Stelle ha già restituito 42
milioni di rimborsi elettorali, i radicali hanno già promosso due
referendum (l’ultimo vinto nel 1993, ma aggirato dai partiti con il
trucco dei «rimborsi»), e quanto al terzo stanno raccogliendo le firme.
Il lettore che mi ha seguito fin qui potrebbe pensare che io
sia contrario al finanziamento pubblico dei partiti e sia per la sua
piena e totale abolizione. In realtà, per quel poco che può interessare
quel che penso io, la mia posizione è un po’ diversa, e si potrebbe
riassumere in tre punti.
Primo. Quello cui sono fermamente contrario non è il
finanziamento pubblico, ma è lo stravolgimento della lingua italiana. Ho
il massimo rispetto per tutte le posizioni, ma preferirei che venissero
presentate per quello che sono, anziché essere mascherate dietro
formule verbali volte a occultarne la sostanza. Il disegno di legge del
governo è difendibilissimo, salvo il primo articolo, che io riformulerei
così: anziché «E’ abolito il finanziamento pubblico dei partiti»,
scriverei «E’ mantenuto il finanziamento pubblico dei partiti, ma ne
vengono modificati importi e meccanismi di erogazione».
Secondo. Mi piacerebbe che chi appartiene a Pd e Pdl (i due
partiti da cui dipende la sorte del governo) e dice di essere contrario
al finanziamento pubblico, facesse una battaglia vera entro il suo
partito, e dicesse in modo chiaro che non condivide il disegno di legge
governativo. Mi incuriosisce, in particolare, la posizione di Matteo
Renzi e dei suoi: avevo capito che fossero per una vera abolizione del
finanziamento pubblico (un punto importante di dissenso con Bersani),
ora pare invece che non siano contrari al disegno di legge governativo, e
che si accontenterebbero di alcuni ritocchi, previsti in appositi
emendamenti. Che cosa dobbiamo pensare? Renzi ha cambiato idea? O anche
lui, semplicemente, non vuole disturbare il manovratore?
Infine, ultimo punto. Io sarei favorevole a un (modesto)
finanziamento pubblico ai partiti. Ma non a questi partiti, e non in
spregio a un referendum. Perciò avrei fatto l’esatto contrario del
governo Letta. Anziché mantenere il finanziamento per qualche anno,
promettendo una sua più o meno nebulosa rimodulazione futura, avrei
invertito i tempi: azzeramento subito, ed eventuale reintroduzione se e
quando avremo dei partiti decenti, e i cittadini avranno avuto modo di
cambiare il loro giudizio su di essi, magari certificandolo con un nuovo
referendum. Perché è vero che il finanziamento pubblico esiste in
(quasi) tutta Europa, ma è anche vero che in nessun Paese europeo che si
rispetti i partiti sono corrotti e clientelari come qui. Va bene essere
europei, ma non va bene esserlo solo a metà.
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