mercoledì 31 luglio 2013

Fiat via dall’Italia? No, se n’è già andata

Matteo Tacconi 
Europa  
  
Marchionne dice che qui «le condizioni industriali sono impossibili». Ma dal 2004 a oggi la produzione del Lingotto in Italia è crollata. Ecco le cifre e il confronto con Volkswagen
Fiat via dall'Italia? No, se n'è già andataL’anno scorso ci fu il passo indietro su Fabbrica Italia, progetto da venti miliardi di investimenti. «Un errore, una strategia non in linea con l’andamento dei mercati». Oggi c’è la minaccia, giunta alla vigilia dell’incontro con la Fiom di venerdì (non ancora confermato), di assemblare all’estero i nuovi modelli dell’Alfa, a causa delle «condizioni industriali italiane impossibili».
L’impressione è che ogni annuncio di Sergio Marchionne sottenda una strategia chiara: spostare fuori ulteriori segmenti di produzione, togliendoli agli impianti italiani. Una strategia che, come in una specie di gioco delle parti, dall’altro lato della barricata – governo e sindacati – ci si rifiuta di recepire, evocando i soliti discorsi: produrre in Italia si deve, si può; la Fiat ha avuto tanto, non può tradire.
Se con le parole si fa tattica, i numeri restituiscono uno scenario indiscutibile. Consultando la banca dati dell’Organizzazione internazionale dei costruttori d’auto (Oica) la cifra della gestione Marchionne, iniziata nel 2004, è lampante. La Fiat non se ne sta andando: se n’è già andata.
Nel 2004 l’azienda sfornava un milione e 9528 vetture in Italia, quasi la metà del totale della produzione (due milioni e 119mila). Nel 2011, l’anno a cui le ultime stime ufficiali dell’Oica fanno riferimento, solo 685mila veicoli sono stati realizzati in patria, a fronte dei due milioni e 399mila complessivi. La quota italiana è scesa al 28 per cento.
In compenso nello stabilimento polacco si è passati da 306mila a 400mila mezzi, con una variazione di trenta punti percentuali. In Turchia da 140mila a 197mila (40 per cento), in Brasile da 441mila a 750mila (70 per cento) e in Cina da 23mila a 141mila, con un incremento del 591 per cento. Tutto questo senza tenere conto degli investimenti massicci a Kragujevac, in Serbia, dai cui capannoni, operativi dall’anno scorso, sono già uscite più di 100mila 500L. Viceversa la produzione a Tychy, in Polonia, è stata rivista al ribasso. Ma al netto di queste oscillazioni il messaggio resta evidente: l’Italia, nell’ottica del Lingotto, è abbastanza marginale. Lo diverrà ancora di più. Forse.
Fiat non è un’anomalia, nel contesto delle casate occidentali. In questi ultimi vent’anni il baricentro produttivo dell’auto ha registrato due spostamenti. In chiave europea, i paesi dell’Est hanno giocato la parte dei protagonisti. In un’ottica globale, invece, sono stati i paesi emergenti, Cina in testa, a ruggire.
Le statistiche relative a Psa (Peugeot-Citroen), per fare un paragone, non si discostano troppo da quelle Fiat. Tra il 2004 e il 2011 c’è stato solo un lieve incremento di produzione (da tre milioni e 400mila a tre milioni e 600mila circa), la Francia ha perso parecchio (da un milione e 900mila a un milione e 300mila veicoli) e ci sono stati investimenti significativi in Repubblica ceca e Slovacchia, Cina, Iran e Brasile.
Diverso il caso Volkswagen, non solo in termini di quote di mercato e output (nel 2011 sono state prodotte più di otto milioni di vetture, tre in più rispetto al 2004). È vero che la casata tedesca ha potenziato ogni suo impianto all’estero, con la risibile eccezione di quello slovacco, portando le unità realizzate in Cina da 575mila a quasi due milioni. Ma a differenza della Fiat e di Psa non ha dismesso in casa propria. Anzi. Se nel 2004 si producevano in Germania quasi due milioni di veicoli, oggi è stato sfondato il muro dei due milioni e mezzo. A Wolfsburg delocalizzazione e salvaguardia della produzione locale vanno a braccetto.

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