Marchionne dice che qui «le condizioni industriali sono
impossibili». Ma dal 2004 a oggi la produzione del Lingotto in Italia è
crollata. Ecco le cifre e il confronto con Volkswagen
L’anno scorso ci fu il passo indietro su Fabbrica Italia,
progetto da venti miliardi di investimenti. «Un errore, una strategia
non in linea con l’andamento dei mercati». Oggi c’è la minaccia, giunta
alla vigilia dell’incontro con la Fiom di venerdì (non ancora
confermato), di assemblare all’estero i nuovi modelli dell’Alfa, a causa
delle «condizioni industriali italiane impossibili».
L’impressione è che ogni annuncio di Sergio Marchionne sottenda una
strategia chiara: spostare fuori ulteriori segmenti di produzione,
togliendoli agli impianti italiani. Una strategia che, come in una
specie di gioco delle parti, dall’altro lato della barricata – governo e
sindacati – ci si rifiuta di recepire, evocando i soliti discorsi:
produrre in Italia si deve, si può; la Fiat ha avuto tanto, non può
tradire.
Se con le parole si fa tattica, i numeri restituiscono uno scenario
indiscutibile. Consultando la banca dati dell’Organizzazione
internazionale dei costruttori d’auto (Oica) la cifra della gestione
Marchionne, iniziata nel 2004, è lampante. La Fiat non se ne sta
andando: se n’è già andata.
Nel 2004 l’azienda sfornava un milione e 9528 vetture in Italia,
quasi la metà del totale della produzione (due milioni e 119mila). Nel
2011, l’anno a cui le ultime stime ufficiali dell’Oica fanno
riferimento, solo 685mila veicoli sono stati realizzati in patria, a
fronte dei due milioni e 399mila complessivi. La quota italiana è scesa
al 28 per cento.
In compenso nello stabilimento polacco si è passati da 306mila a
400mila mezzi, con una variazione di trenta punti percentuali. In
Turchia da 140mila a 197mila (40 per cento), in Brasile da 441mila a
750mila (70 per cento) e in Cina da 23mila a 141mila, con un incremento
del 591 per cento. Tutto questo senza tenere conto degli investimenti
massicci a Kragujevac, in Serbia, dai cui capannoni, operativi dall’anno
scorso, sono già uscite più di 100mila 500L. Viceversa la produzione a
Tychy, in Polonia, è stata rivista al ribasso. Ma al netto di queste
oscillazioni il messaggio resta evidente: l’Italia, nell’ottica del
Lingotto, è abbastanza marginale. Lo diverrà ancora di più. Forse.
Fiat non è un’anomalia, nel contesto delle casate occidentali. In
questi ultimi vent’anni il baricentro produttivo dell’auto ha registrato
due spostamenti. In chiave europea, i paesi dell’Est hanno giocato la
parte dei protagonisti. In un’ottica globale, invece, sono stati i paesi
emergenti, Cina in testa, a ruggire.
Le statistiche relative a Psa (Peugeot-Citroen), per fare un
paragone, non si discostano troppo da quelle Fiat. Tra il 2004 e il 2011
c’è stato solo un lieve incremento di produzione (da tre milioni e
400mila a tre milioni e 600mila circa), la Francia ha perso parecchio
(da un milione e 900mila a un milione e 300mila veicoli) e ci sono stati
investimenti significativi in Repubblica ceca e Slovacchia, Cina, Iran e
Brasile.
Diverso il caso Volkswagen, non solo in termini di quote di mercato e output (nel
2011 sono state prodotte più di otto milioni di vetture, tre in più
rispetto al 2004). È vero che la casata tedesca ha potenziato ogni suo
impianto all’estero, con la risibile eccezione di quello slovacco,
portando le unità realizzate in Cina da 575mila a quasi due milioni. Ma a
differenza della Fiat e di Psa non ha dismesso in casa propria. Anzi.
Se nel 2004 si producevano in Germania quasi due milioni di veicoli,
oggi è stato sfondato il muro dei due milioni e mezzo. A Wolfsburg
delocalizzazione e salvaguardia della produzione locale vanno a
braccetto.
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