La
questione degli F35 rischia di essere instradata nel solito dilemma
astratto e un po’ stucchevole tra il realismo dei militari e di alcuni
politici, da una parte, e le convinzioni utopiche di un manipolo di
pacifisti e «anime belle», dall’altra. Sarebbe importante ricondurla a
questione tipicamente e propriamente «politica». Il che vuol dire alcune
cose: verificare i percorsi; cogliere i valori in gioco; studiarne le
dimensioni tecniche; scegliere le priorità; contemperare le posizioni
per ottenere un consenso più esteso.
Certo, un programma così ampio e costoso, con anni di storia alle
spalle (dal 1998, anche se le decisioni più vincolanti risalgono al
2009) e percorsi complessi di scelte e passaggi tecnici, non si può
cancellare con un tratto di spugna. Ne vanno assunti responsabilmente i
dati pregressi, per valutare le scelte possibili (anche se al momento si
sono pagati dei costi, ma non esistono contratti che parlino di penali
nel caso di modificazioni). Correlativamente, vanno contestualizzati i
tempi: di fronte alle tragedie della crisi e con una spesa pubblica che –
a quanto il governo sostiene – non riesce a star dietro all’essenziale,
non si può far finta che tutto sia già deciso e che si possa ritenere
assodata e incontrovertibile una scelta dal peso così cospicuo (si parla
di 14 o forse di 17 miliardi di euro… mentre ci si accapiglia per 4
miliardi di Imu!).
Quindi, i valori: la sicurezza, certo lo è, ma andrebbe declinata in
un discorso articolato che faccia capire all’opinione pubblica contorni,
problemi e dinamiche della questione militare. Ad esempio, è certo che
alcuni aerei andranno «in pensione». Ma erano aerei frutti di progetti e
strategie dei tempi della guerra fredda. Se l’emergenza appare sempre
più legata all’instabilità o al fallimento di Stati sul fronte africano e
mediorientale, è forse prioritario impegnare una quota dominante del
bilancio della difesa su un cacciabombardiere d’attacco, immaginato per
contrastare forze armate tecnologicamente avanzate? E poi: non sarebbe
il caso di far fare finalmente – quanto gradualmente – alla difesa
nazionale quel salto di qualità europeo che starebbe nella necessità
economica e nell’auspicio politico e valoriale di chi crede
dell’evoluzione europeista come unico modo per conquistare uno spazio
nel mondo da parte dei vecchi stati del continente? E infine: la
sicurezza deve essere messa in rapporto con l’obiettivo chiaro di
costruire la pace e quindi di politicizzare percorsi di riduzione della
violenza, in cui probabilmente un ripensamento dei capitoli e della
qualità della spesa militare assumerebbe un ruolo-chiave.
Infine: la ricaduta economica e tecnologica. Sulla prima, i dati
parlano di un progetto prevalentemente statunitense, con impatto non
nullo ma certo piuttosto limitato per l’economia italiana (che avrebbe
soprattutto il compito di assemblare alcune parti di ali e di fornire
manutenzione alla base di Cameri): molto meno di quello che avrebbe
garantito la scelta concorrenziale dell’Eurofighter, secondo parecchi
esperti. Sul secondo aspetto, si susseguono le indicazioni di un
progetto non solo originariamente costoso, ma con costi in crescita
verticale. In cui, inoltre, alcuni dei presunti caratteri innovativi
(funzione stealth per sfuggire ai radar, decollo verticale ecc.) non
sembrano efficacissimi nei prototipi finora sperimentati, agli occhi di
agenzie americane di monitoraggio.
Bene quindi ha fatto il parlamento a chiedere una moratoria al
governo per riverificare il progetto, dopo la parziale riduzione, già
operata dal governo Monti, sul numero di aerei da acquistare (da 131 a
90). Come molti altri paesi partner hanno già fatto, del resto: in
qualche caso addirittura rimettendo in questione la scelta e indicendo
nuove gare tra modelli concorrenti.
La recente polemica sulla nota del Consiglio supremo della difesa non
mi pare cambi molto la questione: può essere vero che il rapporto
fiduciario con il governo non implica che il parlamento abbia diritto di
veto nei dettagli tecnici dei programmi di armamento, anche alla luce
della recente legge 244/12. Ma a me sembra difficile negare che qui
siamo di fronte a tutt’altro che un dettaglio tecnico: siamo a trattare
un macro-problema, dove un’eventuale determinazione del parlamento a
rinegoziare a fondo la questione non potrebbe che condizionare
fortemente il governo. Pena appunto il decadere possibile del rapporto
di fiducia.
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