domenica 28 luglio 2013

Tonini: “Nessuna paura. La morte è un ritorno a Dio”

Michele Brambilla Ravenna

Solo dopo un’ora di colloquio trovo la sfrontatezza per la domanda che mi ero ripromesso di rivolgere al cardinale più vecchio del mondo: ma lei, eminenza, non ha paura della morte? «No»: la risposta di Ersilio Tonini, 97 anni, arcivescovo emerito di Ravenna e di Cervia, è immediata e tanto vigorosa da far apparire quasi misterioso il contrasto tra una simile forza interiore e l’esile, minuta figura dell’uomo che la contiene. Sarà per via della fede: un cristiano pensa che la morte non sia la fine di tutto. Ma pensa o spera? La seconda domanda che faccio è ancora più irriverente: lei non ha mai dubbi di fede? «No», risponde ancora, «grazie a Dio non ho mai avuto dubbi», e probabilmente qualsiasi prelato avrebbe risposto così, ma il cardinal Tonini trasmette qualcosa che ti fa pensare: questo ci crede davvero.
Abita in due piccole stanze dell’Opera Santa Teresa del Bambino Gesù, un istituto per malati gravi. Ma non è qui perché stia poco bene, o per via dell’età: abita qui dal dicembre del 1975, quando salì sulla cattedra di Sant’Apollinare. Decise subito di lasciare l’appartamento riservato all’arcivescovo, in uno splendido palazzo, a una comunità di recupero per tossicodipendenti; e venne qui in quest’Opera Santa Teresa che è considerata il cuore della carità romagnola. Fu un gesto choccante, che mandò in crisi l’anticlericalismo tanto radicato da queste parti.

Sta bene. Per come può star bene un uomo di 97 anni: ma diciamo subito, tanto per prevenire la domanda che si fa sempre in questi casi, che è lucido. «Ho imparato a non aver paura della morte soprattutto quando sono stato parroco, a Salsomaggiore. Appena arrivato, una notte mi mandano a chiamare, c’è uno sta che sta morendo e vuole il prete. Ricordo ancora che mestiere faceva: il tassista. Mi dice: reverendo mi aiuti, voglio comparire dinnanzi a Dio con l’anima libera. Nella sua semplicità voleva offrire la propria morte come atto di restituzione della vita avuta in dono da Dio. Andava incontro alla morte con una serenità impensabile. Mi dissi: c’è sempre gente che ci supera, all’infinito, nella fede».
«Fare il parroco, stare in mezzo alla gente, per me è stata una grande lezione. Mi si è svegliato il senso dello stupore. E mi sono convinto che l’uomo è una meraviglia: davvero si capisce perché nella Bibbia è definito il capolavoro di Dio... Anche nelle persone che credevi più banali alla fine scopri risorse impensabili, un deposito segreto. L’uomo è una creatura tale che non può dissolversi nel nulla». L’ha detto tante volte ma non può non ricordarlo anche ora, nel momento in cui pensa alla sua fede che non è mai venuta meno: «Lo debbo ai miei genitori. Mia madre aveva la terza elementare, ma aveva il gusto di Dio. Quando stava per morire non aveva neppure 60 anni. Ci riunì tutti, noi eravamo cinque figli. Diede a ciascuno di noi il suo suggerimento. Era serena. Per me la famiglia è stato un dono infinito: ho vissuto la sapienza dei poveri, del mondo contadino». Gli chiedo se «parla» ancora con i suoi genitori: «Sì, certo, io li percepisco come vivi».
In un certo senso si considera un collega: ha cominciato a occuparsi di giornalismo nel 1947 dirigendo un settimanale diocesano; nel 1978 Paolo VI lo volle presidente del consiglio di amministrazione di «Avvenire», e vent’anni fa è andato in tv con Enzo Biagi per spiegare agli italiani che cosa sono i dieci comandamenti. Diventò allora un volto noto, la parola di Dio sul piccolo schermo. Nel 1994 Giovanni Paolo II lo nominò cardinale ed Enzo Biagi scrisse: «Non sarà facile per me chiamarlo eminenza. Diventerà un principe della Chiesa però io continuerò a vederlo come il pretino delle mie parti».
«Ero molto legato a Biagi, insieme girammo i teatri di tutta Italia per parlare dei comandamenti. Era vivace, anche puntiglioso in certi momenti, ma è stato geloso del suo mestiere, e questo per me è un merito. Io credo che il giornalismo abbia un grande compito storico, e credo che lo abbia svolto bene, credo che abbia aiutato questa generazione a essere attenta».
«Volevo molto bene anche a Montanelli. Quando, nel 1994, lasciò il Giornale, mi fece chiamare. Mi telefonarono: Montanelli ha bisogno di lei. Aveva voluto radunare alcuni amici. Fu un momento molto bello e mi commuovo ancora quando lo ricordo: si riconosceva che questo benedetto mestiere, o mestieraccio, è - volere o no - uno degli elementi decisivi per lo sviluppo della storia. Se il giornalismo è riuscito a diventare non solo un “fotografo” di quel che accade, ma anche un elemento attivo e positivo della storia, lo si deve anche a uomini come Biagi e Montanelli».

Diffida delle Cassandre, dei pessimisti in servizio effettivo e permanente: «Secondo me il mondo oggi è migliore di trenta o quaranta anni fa. Le racconto un piccolo episodio. Questo Papa, Benedetto XVI, all’inizio del suo pontificato, volle andare in un posto lontanissimo, non ricordo più quale, ma io mi chiedevo che cosa potesse interessargli proprio quell'angolo della terra, lui che si apprestava a ricoprire una responsabilità così grande... E poi ho capito: la novità dell’attuale momento storico è proprio l’universalità. Ci sono popoli che fino a pochi anni fa non avevano voce, e che ora si fanno sentire... L’avere trascurato per tanto tempo una così grande parte dei nostri fratelli è stato un errore enorme. Prenda l’Africa. Oggi l’Africa ci sta dicendo: ci siamo anche noi». E la Chiesa? «Anche la Chiesa oggi è in uno dei suoi momenti migliori. Io sono molto sereno sulla Chiesa di oggi. E questo Papa mi piace molto».
Gli chiedo come immagina il paradiso: «Come Dio che si manifesta nel suo splendore, nella bellezza totale. È difficile trovare parole appropriate. Ma sarà anche il momento in cui avremo la comprensione del tutto. E avremo lo stupore, che è la cosa più bella». Adesso è un po’ stanco, ci saluta. Ci accompagna nel corridoio, su un muro c’è un manifesto con scritto: «Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore».

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