domenica 28 luglio 2013

Nel paese delle banane tristi

per l'editoriale ho scelto di pubblicare questo articolo comparso su Europa come segno di solidarietà a una bella persona....quelle che fanno bella la politica.  Riccardo


Filippo Sensi 
Europa  

L'episodio di Cervia pone sempre la stessa domanda: siamo diventati un paese razzista?

Avevo un pregiudizio positivo nei confronti delle banane, non fosse altro per i Velvet Underground o Harry Belafonte. Mi hanno sempre messo allegria, come gli elefanti. Quando il povero David Miliband e’ finito massacrato dai media per una sua foto con una banana in mano, ho pensato alla potenza e alla spietatezza dei media britannici, sbagli un frutto, e sei fregato a vita, sarai per sempre quello della banana.
Nel paese delle banane tristiPer questo, quando ho sentito del lancio di banane a Cervia all’indirizzo del ministro Cecile Kyenge, ho pensato che basta, non ne avrei più voluto sapere, mai piu’. Perché non mi fanno più ridere le banane, e non mi fa ridere un Paese, il nostro, in cui succedono episodi del genere. Non ho visto foto, né filmati, forse meglio così; giornalisticamente dovrei stare lì a capire meglio, a sapere se poi questi geni li hanno presi o meno, chi erano, se appartenevano a questa o quella organizzazione politica. Ancora spero che non sia vero, che non sia possibile, che sia solo una buccia, di banana.
Qualche giorno fa l’orango, le scuse impacciate, insufficienti di Calderoli che ancora sta li a fare il vicepresidente del Senato, che vergogna. Ora come allora il ministro ha dato mostra di una classe dolente, di una amara ironia che la rende ancora più ammirevole in questa Italia che, in una vertigine di cupio dissolvi, sembra volere assomigliare sempre più alle peggiori barzellette sul suo conto, al suo rovescio mostruoso, al suo peggio.
Sono pochi imbecilli, si dirà, qualcuno su Twitter, giustamente, ricorda che non siamo solo l’Italia che tira le banane, siamo anche il paese che conta fra i suoi ministri una persona così, equilibrata, gentile, mite come dovrebbe essere la democrazia.
Mi chiedo, però: come si combatte tutto questo? E ancora, siamo sempre stati così? O qualcosa si è rotto nella grammatica di un Paese che si è sempre raccontato come non razzista, e invece. La domanda è proprio questa: siamo un paese razzista? E ci siamo abituati a questo, lo vediamo come un piccolo tributo da pagare magari alla globalizzazione?
Esistono persone, spero poche, temo tante, che vivono la sola presenza di Cecile Kyenge al governo come una provocazione. Già, una provocazione. Una minaccia. Tale da poterla esorcizzare, evocando le bestie della giungla o tirando le banane a una giovane donna, mentre alla Casa Bianca siede un cinquantenne che si chiama Barack Obama, e anche da loro all’inizio gli sbagliavano il nome (da noi pure, si dice chienghe, per chi deve fare i servizi alla radio e alla tv).
Forse semplicemente, anche a furia di Calderoli e di Borghezio, siamo diventati quello che siamo, un posto in cui una donna viene insultata per il colore della pelle, un posto in cui questa stessa donna e’ esponente di un esecutivo; un posto in cui ti chiamano orango e ti tirano le banane per il colore della tua pelle, un posto in cui siamo sempre più stufi che la stupidità di qualcuno ci ricordi da dove veniamo, fosse chissà dove andiamo. Un posto, insomma, dove perfino le banane sono diventate tristi.

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