Si deve propiziare una competizione trasparente tra diverse visioni
intestate a distinti candidati da mettere in campo subito. Non in un
secondo momento, con il congresso scandito in “due fasi” e che “muove
dal basso”
Qualcuno la interpreta come una minaccia da scongiurare, io
invece penso sia naturale e giusto che, nel confronto congressuale del
Pd, si discuta circa il rapporto tra partito e governo Letta.
Dentro il Pd, si oscilla tra chi sembra profittare di ogni occasione
per marcare le distanze dal governo, facendo agevolmente leva sul
profondo disagio del popolo democratico verso la strana maggioranza
delle larghe intese, e chi si erge a pretoriano di esso. Spesso con un
rovesciamento delle parti che testimonia un certo tatticismo, una sorta
di gioco delle parti. Su un fronte l’antiberlusconismo di chi sino a
ieri si affannava a spiegare che l’antiberlusconismo ideologico (?) non
paga; sull’altro fronte chi sta al governo e un po’ ci si è affezionato,
pur avendo accompagnato in ogni passo Bersani nel vano tentativo di
dare vita al cosiddetto governo del cambiamento o ancora chi,
contraddittoriamente, opponendosi a Renzi, suona una suadente musica di
sinistra ma poi volentieri si acconcia a fare il ministro in un governo
di tutt’altro segno.
Dovremmo ridurre drasticamente l’indice di strumentalità di tale
confronto e riportare il prossimo congresso a operare scelte chiare
sulle questioni che davvero decidono del futuro del Pd e della
democrazia italiana. Anche perché si tratta di una sorta di congresso di
rifondazione.
Azzardo, semplificando a dismisura quattro possibili prospettive, che
certo possono conoscere ulteriori varianti: quella di chi, magari
traguardando al dopo Berlusconi, immagina di fare dell’attuale
esperienza di governo il laboratorio di un nuovo grande centro che
evochi, pur dentro nuove coordinate, l’assetto della prima Repubblica
ponendo fine al bipolarismo della seconda; quella di chi, preservando il
bipolarismo, interpreta il Pd come major party d’ispirazione
liberal-riformista di un centrosinistra di governo dentro un quadro
politico ove i due poli alternativi si contendono l’elettorato mediano,
grazie a una dinamica centripeta del sistema; quella che, ancorché su
basi culturali e organizzative aggiornate, faccia del Pd un partito di
sinistra di stampo socialdemocratico e dunque aderente, senza più
distinguo, alla famiglia laburista e socialista europea; quella infine
di ispirazione ulivista che contempla una visione unitaria e plurale del
partito, un bipolarismo che non si spinga velleitariamente sino al
bipartitismo, la scommessa sull’originalità di un pensiero democratico
che ricomprenda ma anche trascenda le famiglie politiche del Novecento.
Anche in tema dei diritti civili e di questioni eticamente sensibili.
Una discussione congressuale aperta su soluzioni tra loro alternative
è la sola via per venire a capo di una identità tuttora incerta. Le
regole congressuali di cui si discute dovrebbero propiziare una
competizione trasparente tra tali diverse visioni intestate a distinti
candidati da mettere in campo subito. Non in un secondo momento, con il
cosiddetto congresso scandito in “due fasi” e che “muove dal basso”.
Formula che intimidisce ed inganna: chi mai può volere un congresso
che muove dall’alto? Ma, formula, dietro la quale sta una sequenza per
nulla rispettosa della effettiva partecipazione di iscritti e circoli
municipali del Pd, che dovrebbero eleggere i loro organi rappresentativi
prima e a monte della competizione e del confronto politico decisivo:
quello su mozioni politiche nazionali associate ai candidati alla
leadership nazionale.
Come se si potesse separare la discussione sulle questioni locali da
quella relativa alla politica nazionale. Come se non vi fosse l’esigenza
e il dovere di dare conto sollecitamente e a tutto il corpo del partito
di questioncine del tipo della vittoria mutilata risoltasi in sconfitta
politica, della drammatica débâcle dell’elezione al Quirinale (con i
nostri 101) e del governo politico con il Pdl. Sostenendo la tesi che la
sequenza opposta sarebbe divisiva, privilegerebbe la contesa sulle
persone dei candidati a discapito del confronto sui tanto celebrati
contenuti unitari, incoraggerebbe il correntismo e le cordate.
È esattamente il contrario: chi ha una visione non organicistica e
paternalista della politica, ma democratica e di sua natura dialettica,
sa che il solo modo per contrastare l’artificioso frazionismo e la
feudalizzazione del partito è quello di costringere ad elaborare
politicamente le differenze, di portarle in superficie e di metterle a
confronto chiamando militanti, iscritti ed elettori a giudicare e a
scegliere. A tutti i livelli, da quello municipale (ove c’è gran voglia
di discutere di politica nazionale) a quello centrale.
Altra idea che non mi convince è quella di separare leadership e
premiership. Una separazione virtualmente foriera di una divaricazione
tra partito e premier. Domando: se le questioni oggi controverse dentro
il Pd sono quelle sopra accennate (cioè di natura identitaria), davvero
si può immaginare che regga una sorta di divisione del lavoro del tipo:
un leader posizionato a sinistra e un candidato premier dal profilo
liberale e centrista? L’uno che inneggia al blairismo e l’altro che lo
considera una esperienza politica anacronistica o addirittura il
deragliamento della sinistra europea? Uno per il semipresidenzialismo e
l’altro per soluzioni neoparlamentariste?
Se il congresso non si applica a sciogliere questi nodi, che lo si fa
a fare? Più brutalmente, si corre il rischio di un partito estraneo se
non ostile al suo premier. Un film che abbiamo già visto con Prodi, cui
ha nuociuto l’handicap di non essere alla testa di un suo partito. A
questo fine, a ben vedere, le regole congressuali vigenti non vanno
cambiate.
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