mercoledì 24 luglio 2013

Congresso, perché le regole non vanno cambiate

Franco Monaco 
Europa  

Si deve propiziare una competizione trasparente tra diverse visioni intestate a distinti candidati da mettere in campo subito. Non in un secondo momento, con il congresso scandito in “due fasi” e che “muove dal basso”
Qualcuno la interpreta come una minaccia da scongiurare, io invece penso sia naturale e giusto che, nel confronto congressuale del Pd, si discuta circa il rapporto tra partito e governo Letta.
Dentro il Pd, si oscilla tra chi sembra profittare di ogni occasione per marcare le distanze dal governo, facendo agevolmente leva sul profondo disagio del popolo democratico verso la strana maggioranza delle larghe intese, e chi si erge a pretoriano di esso. Spesso con un rovesciamento delle parti che testimonia un certo tatticismo, una sorta di gioco delle parti. Su un fronte l’antiberlusconismo di chi sino a ieri si affannava a spiegare che l’antiberlusconismo ideologico (?) non paga; sull’altro fronte chi sta al governo e un po’ ci si è affezionato, pur avendo accompagnato in ogni passo Bersani nel vano tentativo di dare vita al cosiddetto governo del cambiamento o ancora chi, contraddittoriamente, opponendosi a Renzi, suona una suadente musica di sinistra ma poi volentieri si acconcia a fare il ministro in un  governo di tutt’altro segno.
Dovremmo ridurre drasticamente l’indice di strumentalità di tale confronto e riportare il prossimo congresso a operare scelte chiare sulle questioni che davvero decidono del futuro del Pd e della democrazia italiana. Anche perché si tratta di una sorta di congresso di rifondazione.
Azzardo, semplificando a dismisura quattro possibili prospettive, che certo possono conoscere ulteriori varianti: quella di chi, magari traguardando al dopo Berlusconi, immagina di fare dell’attuale esperienza di governo il laboratorio di un nuovo grande centro che evochi, pur dentro nuove coordinate, l’assetto della prima Repubblica ponendo fine al bipolarismo della seconda; quella di chi, preservando il bipolarismo, interpreta il Pd come major party d’ispirazione liberal-riformista di un centrosinistra di governo dentro un quadro politico ove i due poli alternativi si contendono l’elettorato mediano, grazie a una dinamica centripeta del sistema; quella che, ancorché su basi culturali e organizzative aggiornate, faccia del Pd un partito di sinistra di stampo socialdemocratico e dunque aderente, senza più distinguo, alla famiglia laburista e socialista europea; quella infine di ispirazione ulivista che contempla una visione unitaria e plurale del partito, un bipolarismo che non si spinga velleitariamente sino al bipartitismo, la scommessa sull’originalità di un pensiero democratico che ricomprenda ma anche trascenda le famiglie politiche del Novecento. Anche in tema dei diritti civili e di questioni eticamente sensibili.
Una discussione congressuale aperta su soluzioni tra loro alternative è la sola via per venire a capo di una identità tuttora incerta. Le regole congressuali di cui si discute dovrebbero propiziare una competizione trasparente tra tali diverse visioni intestate a distinti candidati da mettere in campo subito. Non in un secondo momento, con il cosiddetto congresso scandito in “due fasi” e che “muove dal basso”.
Formula che intimidisce ed inganna: chi mai può volere un congresso che muove dall’alto? Ma, formula, dietro la quale sta una sequenza per nulla rispettosa della effettiva partecipazione di iscritti e circoli municipali del Pd, che dovrebbero eleggere i loro organi rappresentativi prima e a monte della competizione e del confronto politico decisivo: quello su mozioni politiche nazionali associate ai candidati alla leadership nazionale.
Come se si potesse separare la discussione sulle questioni locali da quella relativa alla politica nazionale. Come se non vi fosse l’esigenza e il dovere di dare conto sollecitamente e a tutto il corpo del partito di questioncine del tipo della vittoria mutilata risoltasi in sconfitta politica, della drammatica débâcle dell’elezione al Quirinale (con i nostri 101) e del governo politico con il Pdl. Sostenendo la tesi che la sequenza opposta sarebbe divisiva, privilegerebbe la contesa sulle persone dei candidati a discapito del confronto sui tanto celebrati contenuti unitari, incoraggerebbe il correntismo e le cordate.
È esattamente il contrario: chi ha una visione non organicistica e paternalista della politica, ma democratica e di sua natura dialettica, sa che il solo modo per contrastare l’artificioso frazionismo e la feudalizzazione del partito è quello di costringere ad elaborare politicamente le differenze, di portarle in superficie e di metterle a confronto chiamando militanti, iscritti ed elettori a giudicare e a scegliere. A tutti i livelli, da quello municipale (ove c’è gran voglia di discutere di politica nazionale) a quello centrale.
Altra idea che non mi convince è quella di separare leadership e premiership. Una separazione virtualmente foriera di una divaricazione tra partito e premier. Domando: se le questioni oggi controverse dentro il Pd sono quelle sopra accennate (cioè di natura identitaria), davvero si può immaginare che regga una sorta di divisione del lavoro del tipo: un leader posizionato a sinistra e un candidato premier dal profilo liberale e centrista? L’uno che inneggia al blairismo e l’altro che lo considera una esperienza politica anacronistica o addirittura il deragliamento della sinistra europea? Uno per il semipresidenzialismo e l’altro per soluzioni neoparlamentariste?
Se il congresso non si applica a sciogliere questi nodi, che lo si fa a fare? Più brutalmente, si corre il rischio di un partito estraneo se non ostile al suo premier. Un film che abbiamo già visto con Prodi, cui ha nuociuto l’handicap di non essere alla testa di un suo partito. A questo fine, a ben vedere, le regole congressuali vigenti non vanno cambiate.

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