La Stampa 30 luglio 2013
E adesso chi glielo dice alla Gelmini, a
Lupi, a Sacconi che ormai è inutile voler far piacere alla Chiesa
chiedendo, ad esempio, una moratoria sulla legge contro l’omofobia? E
chi glielo dirà a Pannella che decenni di allarmi contro le ingerenze
vaticane sono da archiviare nel cestino della memoria?
La verità è che quel bianco viaggiatore con
la sua nera borsa ha spiazzato, tra le tante vecchie abitudini, anche la
politica italiana.
Quella politica che ha sempre cercato il pronto e, magari
persino anticipato, allineamento ai voleri della gerarchia cattolica.
Quella che, davanti a milioni di giovani, si aspettava il tuono del Papa
contro i matrimoni gay, contro l’uso del preservativo, in nome di quei
«valori non negoziabili» che, da circa vent’anni, offrono un comodo
riparo per sperare di raccogliere alle urne il frutto di tanta
servizievole disponibilità.
Chissà quale sorpresa e quale sconcerto, invece, ascoltando
un Papa che parla di Dio, dell’amore tra tutti i fratelli del mondo,
della comprensione umana, come ricetta universale di speranza per un
futuro migliore. Uguale sorpresa e uguale sconcerto, però, avranno
sicuramente provato quei vetero anticlericali di casa nostra, sempre
pronti a negare che la Chiesa possa avere una voce pubblica, che possa
legittimamente esprimere un giudizio sulla nostra società e sulla nostra
politica e che debba solo rifugiarsi nei confessionali e nei conforti
di una silenziosa e timida fede privata.
Chi potrà mai sapere come si fa ad essere più laici di
questo Papa che strapazza cardinali, vescovi, prelati e va in
utilitaria, più di sinistra di un Papa che parla sempre di poveri, più
rivoluzionari di un Papa che invita i giovani «a fare casino» e, magari,
più conservatori di un Papa che si appella continuamente a Cristo?
E’ come se Papa Francesco, di colpo, avesse levato la
stampella alla politica italiana, quella stampella a cui tutti si
appoggiavano, sia per sostenerla, sia per abbatterla. Un gioco delle
parti in cui era troppo facile allinearsi dietro l’etichetta più
conveniente, in cui le squadre erano sempre formate dagli stessi
giocatori, in cui, in fondo, non perdeva mai nessuno. E’ come se non
valessero più nulla pie frequentazioni in sagrestia e assidue presenze
in salotti romani pieni di fruscianti vesti cardinalizie. E’ come se la
politica italiana dovesse prendere posizione liberamente, senza
aspettare il rimbombo che arriva dall’altra riva del Tevere. Una novità
che dovrebbe spazzare via ipocrisie pubbliche e convenienze private,
scambi elettorali e favori oscuri. Ma sarà davvero pronta la politica
italiana, abituata, da decenni, a schieramenti così comodi, a fare da
sola le sue scelte sul futuro della nostra società?
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