LAMPEDUSA
di Raniero La Valle
Non era affatto facile andare a Lampedusa. L’aveva detto qualche giorno
prima papa Francesco in un’omelia a Santa Marta, parlando dei modi per
raggiungere Dio: non serve un corso di aggiornamento, aveva detto, “per
toccare il Dio vivo bisogna uscire per la strada, andando a cercare, a
trovare, ad accostarsi alle piaghe di chi è povero, debole, emarginato.
Una cosa non semplice, né naturale”.
No, non era semplice, né
naturale, come primo viaggio fuori diocesi prendere la strada del mare,
solcare con i pescatori quelle acque divenute tomba dei poveri,
spargervi i fiori della pietà, sbarcare al molo Favarolo, incontrare
quei migranti, quei superstiti che per molti non dovrebbero nemmeno
esistere: per le leggi dello Stato italiano, gestite da quel ministro
degli interni che voleva andare a pavoneggiarsi a Lampedusa accanto al
papa, si tratta di “clandestini”, contro cui è in corso “una lotta”, per
gestire la quale è stata creata apposta una “direzione centrale
dell’immigrazione e della polizia di frontiera”; si tratta di gente che
viene ad arenarsi sul bagnasciuga di quell’ultimo lembo di terra su cui
l’Europa è attestata per difendere il suo privilegio, si tratta di
profughi, del popolo delle barche, di disperati che fuggono i tormenti
dei loro Paesi, che si affidano al ricatto dei battellieri, che si
aggrappano a un gommone, e che se sopravvivono sono salvati per essere
tradotti in quei campi di detenzione che prima abbiamo chiamato “centri
di permanenza temporanea” e poi, con la chiarezza tipica del linguaggio
della Lega, “centri di identificazione e di espulsione”: i
respingimenti, altro che andare a baciare le piaghe del povero.
Perciò ha fatto bene il papa a non volere né governo, né ammiragli, né
altre autorità a far da corona alla sua trasferta; non solo perché i
viaggi papali devono tornare ad essere visite pastorali di un vescovo, e
non visite di Stato e vetrine di potenti, ma anche perché noi e il
nostro Stato non siamo innocenti di quelle vittime e di quelle piaghe.
Ma che sta facendo il papa? Sta cambiando il papato e di conseguenza,
data l’invasività di questa istituzione, sta cambiando la Chiesa, prima
ancora di metter mano alla sua riforma. E lo fa rendendo visibile il
Vangelo; questa è la sua specificità o, se si vuole, il suo carisma;
altri predicano il Vangelo, ne fanno l’esegesi; quello che fa Francesco è
che il Vangelo ce lo fa vedere. Ce lo fa vedere a Roma, ce lo fa vedere
a Lampedusa. Non è una novità, anche Gesù faceva così, e se uno era
cieco, ecco che lo guariva perché vedesse anche lui. Ma nello stesso
tempo quella che fa Francesco è una cosa modernissima: ha capito che la
parola da sola non crea l’evento, è il gesto che porta la parola;
l’icona non parla, ma rivela, il mezzo è il messaggio. Del resto proprio
questo è lo statuto, “l’economia della rivelazione”, come la chiama la
Costituzione “Dei Verbum”del Concilio: essa comprende eventi e parole
intimamente connessi, in modo che gli eventi, operati da Dio nella
storia della salvezza, manifestano e confermano le parole, mentre le
parole proclamano le opere e spiegano gli eventi.
I “gesti” così
ammirati di papa Francesco, da quel suo primo apparire senza orpelli e
senza insegne al balcone di San Pietro, non sono le immagini del
cambiamento, e le parole non ne sono la didascalia: sono essi il
cambiamento, ne sono la teologia. Quando il papa dice, in quell’omelia a
Santa Marta, che il Dio cristiano non possiamo trovarlo attraverso la
strada della meditazione, e di una sempre più alta meditazione, e che
anzi molti “si sono persi” in quel cammino; e nemmeno lo possono trovare
quelli che per arrivarci pensano di essere “mortificati, austeri, e
hanno scelto la strada della penitenza, del digiuno”; e nemmeno lo si
trova facendo una fondazione filantropica, ma arrivi a Dio se trovi le
piaghe di Gesù nel corpo – e sottolinea “il corpo” – “del tuo fratello
piagato, perché ha fame, perché ha sete, perché è nudo, perché è
umiliato, perché è schiavo, perché è in carcere, perché è in ospedale”o,
possiamo ora aggiungere, perché sta nei “centri di espulsione” di
Trapani o di Brindisi, papa Francesco trascende la legge dell’etica,
della perfezione, della mortificazione, e rende visibile la fede.
Non a caso, nei giorni stessi in cui preparava il viaggio a Lampedusa,
papa Bergoglio riprendeva l’eredità dell’enciclica sulla fede che aveva
preparato Benedetto XVI, e la pubblicava col suo nome, in una nuova
sintesi di cui è difficile dire che cosa sia di Benedetto che cosa sia
di Francesco. Di certo la fede che balza fuori da questa enciclica non è
la fede passata attraverso la glaciazione dell’ellenismo, ma è la fede
del Concilio, inteso finalmente come “un Concilio sulla fede”, è la fede
che non è solo professione di una verità, la quale da sola “diventa
fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona”, ma è
inseparabile dall’amore; è una fede che “non è intransigente, ma cresce
nella convivenza che rispetta l’altro” e non guarda solo alla città
futura, ma anche all’edificazione, alla preparazione “di un luogo nel
quale l’uomo possa abitare insieme con gli altri”, dove si costruiscano
la giustizia, il diritto e la pace. Anche a Lampedusa? Sì, se si crede,
con l’enciclica, che “il Dio affidabile dona agli uomini una città
affidabile”.
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