sabato 6 luglio 2013

Il vero rischio che corre Matteo Renzi

Stefano Menichini
Europa    

Non è l'improbabile ricomposizione del vecchio patto di sindacato Pd, ma rimanere senza elezioni, appeso in un ruolo equivoco rispetto al governo. Gli serve un patto
Non considerate cronache, cronachette e retroscena sui movimenti delle correnti e sull’apparire e scomparire delle alleanze democratiche. Piuttosto mettete insieme due articoli pubblicati oggi da Europa.
Ce n’è uno del sondaggista Paolo Natale che rivela come l’appeal di Matteo Renzi presso il grande pubblico, per quanto sempre alto, sia in declino. E ce n’è un altro, frutto di un incontro di Mario Lavia con Massimo D’Alema, dal quale emerge una valutazione realistica sulla durata del governo e quindi della legislatura: almeno altri due anni, dice il vecchio maestro di tattica, chiaramente tornato in attività nonostante le dichiarazioni di estraneità alla piccola politica nazionale.
I due discorsi hanno in comune un protagonista positivo che adesso riveste un ruolo chiaro, riconoscibile e (sorprendentemente) duraturo, cioè Enrico Letta.
La stessa decisione, correttissima, di affidare a un disegno di legge costituzionale l’abolizione delle province, implica un allungamento dell’agenda del governo. Il quale col passare dei giorni sembra (contra spem) rafforzarsi, e può cominciare a fare un pensierino sul semestre di presidenza italiana della Ue, cioè sulla possibilità di arrivare perfino alle soglie del 2015.
Ovvio, non per vivacchiare, come dicono tutti. Ma perché le cose da fare in Italia non mancano davvero, e un certo metodo lettiano qualche frutto comincia a darlo.
Sia chiaro, chi mette in contrapposizione personale Letta e Renzi compie un’operazione scorretta.
Ci sono dirigenti del Pd che non amano affatto nessuno dei due (per motivi di genetica politica) eppure provano a giocare la sorte del presidente del consiglio in carica per troncare le ambizioni del sindaco di Firenze. Gioco scoperto: non avendo candidati forti e dal dna “giusto” da contrapporre a Renzi, provano a usare Letta. Al di là delle intenzioni dei due interessati, che per quanto ne sappiamo non sono di ostilità reciproca, i numeri di Natale avvertono che il gioco può riuscire.
Questo, e non l’improbabile ricompattamento del patto di sindacato Pd sconfitto alle elezioni di febbraio, è il vero rischio di Matteo Renzi.
Il sindaco non può continuare fino al 2015 a fare l’osservatore critico che regala fulminanti battute in fiorentino, in un ruolo che finirebbe per diventare inconcludente e antipatico tant’è vero che comincia già a essere penalizzato dall’opinione pubblica.
E però non può neanche lanciare la fatidica sfida per la leadership del Pd – un evento epocale, nei modi in cui potrebbe e dovrebbe farlo lui – consentendo che essa possa essere raccontata e percepita non solo come minacciosa per Letta (sgradevolezza che in politica ahinoi può passare), ma soprattutto come proiettata verso una scadenza elettorale troppo ipotetica.
Lo schema del rapido uno-due che consente il salto al Nazareno e poi a palazzo Chigi potrebbe funzionare solo in caso di blitz-krieg: se fra congresso Pd ed elezioni politiche intercorressero pochissimi mesi. Nessuno però può garantire una simile tempistica a Renzi. Anzi, quasi tutti si sforzerebbero di smontargliela. E più di tutti lo farebbe l’unico dotato del potere di decisione in materia, cioè Giorgio Napolitano.
Rimane solo una terza via: convincere tutti che Renzi capo di un rifondato Pd sarebbe in realtà il vero fattore di stabilità del governo.
Non è un’operazione che si compia con qualche artificio retorico. Bisogna innanzi tutto esserne convinti. E poi è una via che passa dall’incrocio obbligato di un patto dichiarato ed esplicito col vecchio amico ora a palazzo Chigi: senza questo patto – concetto politicamente ultra-tradizionale – sarà tutto più difficile per il ragazzo prodigio che vuole spezzare la tradizione.

Nessun commento:

Posta un commento