Non è l'improbabile ricomposizione del vecchio patto di sindacato
Pd, ma rimanere senza elezioni, appeso in un ruolo equivoco rispetto al
governo. Gli serve un patto
Non considerate cronache, cronachette e retroscena sui movimenti
delle correnti e sull’apparire e scomparire delle alleanze
democratiche. Piuttosto mettete insieme due articoli pubblicati oggi da Europa.
Ce n’è uno del sondaggista Paolo Natale
che rivela come l’appeal di Matteo Renzi presso il grande pubblico, per
quanto sempre alto, sia in declino. E ce n’è un altro, frutto di un incontro di Mario Lavia con Massimo D’Alema,
dal quale emerge una valutazione realistica sulla durata del governo e
quindi della legislatura: almeno altri due anni, dice il vecchio maestro
di tattica, chiaramente tornato in attività nonostante le dichiarazioni
di estraneità alla piccola politica nazionale.
I due discorsi hanno in comune un protagonista positivo che adesso
riveste un ruolo chiaro, riconoscibile e (sorprendentemente) duraturo,
cioè Enrico Letta.
La stessa decisione, correttissima, di affidare a un disegno di legge
costituzionale l’abolizione delle province, implica un allungamento
dell’agenda del governo. Il quale col passare dei giorni sembra (contra spem)
rafforzarsi, e può cominciare a fare un pensierino sul semestre di
presidenza italiana della Ue, cioè sulla possibilità di arrivare perfino
alle soglie del 2015.
Ovvio, non per vivacchiare, come dicono tutti. Ma perché le cose da
fare in Italia non mancano davvero, e un certo metodo lettiano qualche
frutto comincia a darlo.
Sia chiaro, chi mette in contrapposizione personale Letta e Renzi compie un’operazione scorretta.
Ci sono dirigenti del Pd che non amano affatto nessuno dei due (per
motivi di genetica politica) eppure provano a giocare la sorte del
presidente del consiglio in carica per troncare le ambizioni del sindaco
di Firenze. Gioco scoperto: non avendo candidati forti e dal dna
“giusto” da contrapporre a Renzi, provano a usare Letta. Al di là delle
intenzioni dei due interessati, che per quanto ne sappiamo non sono di
ostilità reciproca, i numeri di Natale avvertono che il gioco può
riuscire.
Questo, e non l’improbabile ricompattamento del patto di sindacato Pd
sconfitto alle elezioni di febbraio, è il vero rischio di Matteo Renzi.
Il sindaco non può continuare fino al 2015 a fare l’osservatore
critico che regala fulminanti battute in fiorentino, in un ruolo che
finirebbe per diventare inconcludente e antipatico tant’è vero che
comincia già a essere penalizzato dall’opinione pubblica.
E però non può neanche lanciare la fatidica sfida per la leadership
del Pd – un evento epocale, nei modi in cui potrebbe e dovrebbe farlo
lui – consentendo che essa possa essere raccontata e percepita non solo
come minacciosa per Letta (sgradevolezza che in politica ahinoi può
passare), ma soprattutto come proiettata verso una scadenza elettorale
troppo ipotetica.
Lo schema del rapido uno-due che consente il salto al Nazareno e poi a palazzo Chigi potrebbe funzionare solo in caso di blitz-krieg:
se fra congresso Pd ed elezioni politiche intercorressero pochissimi
mesi. Nessuno però può garantire una simile tempistica a Renzi. Anzi,
quasi tutti si sforzerebbero di smontargliela. E più di tutti lo farebbe
l’unico dotato del potere di decisione in materia, cioè Giorgio
Napolitano.
Rimane solo una terza via: convincere tutti che Renzi capo di un
rifondato Pd sarebbe in realtà il vero fattore di stabilità del governo.
Non è un’operazione che si compia con qualche artificio retorico.
Bisogna innanzi tutto esserne convinti. E poi è una via che passa
dall’incrocio obbligato di un patto dichiarato ed esplicito col vecchio
amico ora a palazzo Chigi: senza questo patto – concetto politicamente
ultra-tradizionale – sarà tutto più difficile per il ragazzo prodigio
che vuole spezzare la tradizione.
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