Giovanni De Mauro
“Il dilemma di fondo è semplice e brutale: le proteste degli
ultimi anni sono il segno di una crisi globale che si sta
inesorabilmente avvicinando, o sono solo dei piccoli ostacoli che
possono essere aggirati o addirittura eliminati attraverso precisi e
specifici interventi?”. Slavoj Žižek è convinto che le manifestazioni di
questi mesi siano piccoli disordini locali all’interno di un
riassestamento globale verso una nuova epoca di progresso.
In Brasile le persone scendono in piazza contro l’aumento del prezzo
dei biglietti dell’autobus, in Turchia contro la distruzione di un
parco, in Indonesia per i prezzi della benzina, in Bulgaria contro la
disoccupazione e la corruzione. Poi ci sono Occupy Wall street, la
Svezia, la Grecia, Israele, il Cile, l’Egitto. Sono proteste scoppiate
per ragioni molto diverse tra loro, in paesi spesso distanti non solo
geograficamente. Ma hanno in comune alcune caratteristiche, oltre alla
contemporaneità.
Secondo Thomas Friedman, editorialista del New York Times, i tratti
simili sono la prepotenza dei governi, la condizione della classe media,
la diffusione dei social network. Immanuel Wallerstein, sociologo
statunitense, nota invece che tutti questi movimenti tendono a essere
piuttosto piccoli all’inizio per poi diventare molto grandi con il
passare del tempo, e arrivati al culmine si affievoliscono rapidamente
lasciando però una traccia permanente nel sistema politico.
Rispondendo indirettamente alla domanda iniziale di Žižek,
Wallerstein è d’accordo che siamo nel pieno di una transizione
strutturale da un’economia capitalistica a un nuovo tipo di sistema, ma è
anche persuaso che l’esito è incerto. E che le battaglie di questi anni
decideranno se il nuovo sistema sarà migliore o peggiore del
precedente.
Internazionale, numero 1007, 5 luglio 2013
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