dopo aver organizzato un incontro a Roma nel giorno dell'apertura della campagna elettorale di Renzi a Torino e aver partecipato all'incontro di ieri a Roma per fondare una nuova corrente ecco che scrivono:
«Matteo, mettici la faccia». Si potrebbe sintetizzare così il messaggio
inviato oggi dai Giovani turchi, che si sono riuniti per fare il punto
in vista delle elezioni europee. «Quello che leggiamo sui sondaggi non
corrisponde alle impressioni che raccogliamo sul territorio, soprattutto
al sud – spiegano da Rifare l’Italia – per questo crediamo che Renzi debba organizzare più iniziative di campagna elettorale».
È potassio eversivo la banana
antirazzista. Rimanda alla posizione eretta della dignità perché è
curva come la colonna vertebrale e come la verità secondo Nietzsche.
La banana di Dani Alves disarma il razzismo più dei discorsi di
Abramo Lincoln ed è magnifica la decisione di farne il simbolo dei
mondiali che il 12 giugno si apriranno a San Paolo.
Matteo Renzi e Cesare Prandelli
mangiano una banana contro il razzismo
IL MORSO di quel calciatore mulatto di
trent’anni, che raccatta da terra e mangia il frutto della vergogna
vigliacca e impunita perché protetta e nascosta dalla folla, ha
infatti il ritmo della samba allegra di Josephine Baker che mostrava
al mondo quant’era bella la scimmia esotica e nera coprendo e
scoprendo con un tutù di banane il corpo più desiderato della
Terra. Ecco perché in un solo giorno è stato più efficace del film
Dodici anni schiavo l’imprevisto spettacolo della banana in calcio
d’angolo che la velocità e la spontaneità del web hanno reso più
popolare dei Papi santificati dai Papi.
Probabilmente Alves non sa che lì
dentro, in quel gesto veloce e denso che passerà alla storia come il
pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos, c’è il riassunto di
due secoli di Ironia: dall’uso degli sberleffi contro il potere di
Goldoni alla sapienza di Chaplin che mostrava al mondo spaventato
quant’era ridicolo Hitler, da “Banana Boat Song” di Harry
Belafonte, il canto dei lavoratori giamaicani (“Come, Mister Tally
Man, / tally me banana, vieni, signor padrone / a contare le mie
banane”) sino alla riserva di umorismo proletario e alla potenza
della satira del nostro Altan che, già prima di Dani Alves, aveva
dimostrato che la banana è di sinistra (ma “il banana” è di
destra).
C’è pure, nella sapienza naturale di
Alves, un’intera enciclopedia della provocazione, la stessa
riassunta dalla banana colta e colorata di Andy Warhol sulla
copertina delle canzoni più esplosive di Lou Reed, quelle
dell’eroina e dei lacci emostatici, “I am waiting for my man / 26
dollars in my hand”, con il bianco che trova appunto il suo angelo
nero nel ghetto di Harlem. E c’è, ancora, un trattato di
tolleranza nel rito semplice dei capocomici e dei commedianti che in
tutte le epoche disinnescano l’odio e la maleducazione del pubblico
raccogliendo gli ortaggi e la frutta sino all’atto estremo di
gustare appunto la banana dell’offesa, trasformata nel suo
contrario come in quel manifesto commissionato contro il bullismo ad
Oliviero Toscani: la foto di una banana con la didascalia “uomo”
e poi la foto di un pisello con la didascalia “bullo”. Questa
banana che ha seppellito il razzismo è infine politica, perché
affianca l’antologia della risata alla fenomenologia dello spirito
della libertà. Ed è bello dedicarla non solo a Balotelli ma
soprattutto alla nostra ex ministra, la signora Kyenge, che a Cantù
fu accolta dai razzisti della Lega a “bananate”, e purtroppo a
nessuno degli indignati d’Italia venne in mente di mangiarne una
come Gargantua e Pantagruele mangiarono il Mondo. Del resto anche
nella Mosca tetra dell’Urss la banana era il Mondo, una specie di
Macondo, il sapore morbido e tuttavia croccante della fuga perché
era l’unico frutto straniero che il regime riusciva ad importare
grazie all’asse con Cuba, che dagli anticomunisti veniva
assimilata, con un cortocircuito ideologico, alle altre famigerate
dittature filo statunitensi del Centro America: Panama, Nicaragua,
Honduras... A riprova che la risata è una declinazione della libertà
queste repubbliche delle banane ispirarono uno dei primi e più
felici film di Woody Allen ( Il dittatore dello Stato libero di
Bananas ). E la repubblica delle banane è infatti l’insulto che
periodicamente ci lanciano i giornali stranieri, la metafora che
accompagna tutte le gaffe di Berlusconi, detto appunto “il banana”.
Una meraviglia di partita è stata
dunque quella di domenica tra il Barcellona e il Villareal, una vera
festa di liberazione perché per la prima volta un gesto abbagliante
come un fulmine ci ha affrancato dall’ipocrita venerazione
dell’invincibilità dello stadio. La banana di Alves ha finalmente
trasformato in intelligenza critica il nostro oscuro e preoccupato
biasimo del razzismo gridato dalle curve dove gli ultras ricoverano i
loro problemi pesanti e i loro feroci conti aperti con il mondo. Non
infatti le leggi speciali, gli elicotteri che fanno vento ed emettono
fasci di luce rossa, le prediche ideologiche e l’esibizione della
forza non usata, ma l’ironia spavalda della vecchia banana ha
smontato l’anomia dello stadio, la dimensione del fuorilegge, del
luogo extraterritoriale dell’impunità che nel mondo è forse più
antica delle corna dell’arbitro, ma non del razzismo.
Se questo è un uomo di Stato. Ad
ascoltare i deliri con i quali Silvio Berlusconi ha aperto la sua
campagna elettorale, non si può trarre una conclusione diversa.
Nessuno si faceva troppe illusioni: un Ventennio di autocrazia
populista e di macelleria costituzionale parla per lui. Ma dopo
l’assegnazione ai servizi sociali per la condanna al processo
Mediaset ci si aspettava almeno una modica quantità di
autocontrollo. Non un «ravvedimento », troppo generosamente
auspicato dal tribunale di sorveglianza nelle motivazioni con le
quali l’ex Cavaliere è stato «affidato» all’Istituto di Cesano
Boscone. Ma almeno un po’ di misura, nell’apprezzare
l’insostenibile leggerezza della pena finale (7 giorni di
«assistenza» spalmati sui prossimi 11 mesi), rispetto alla
comprensibile pesantezza della pena iniziale (4 anni di carcere).
Invece no. Il senso dello Stato, il rispetto delle istituzioni, il
principio di legalità: nulla di tutto questo appartiene alla cultura
politica di Berlusconi.
L’ACCUSA ai tedeschi, secondo i quali
«i lager non sono mai esistiti», è un insulto alla Storia, prima
ancora che alla Germania. La frase, falsa e sconclusionata, è molto
più che l’ennesimo «infortunio» di un gaffeur planetario. È
invece uno scandalo diplomatico, che fa un danno enorme all’immagine
dell’Italia, e non solo al capo di Forza Italia. Le reazioni
indignate, che uniscono la Merkel e i rappresentanti di Ppe e Pse,
confermano la gravità dell’incidente. E solo la malafede
manipolatoria può spingere Berlusconi a replicare che si tratta
dell’ennesima «trappola» ordita delle sinistre, e a ribadire la
sua «profonda amicizia con il popolo ebraico». Qui in gioco non c’è
un presunto «antisemitismo » berlusconiano, che nessuno ha
denunciato. C’è invece l’assoluto cinismo del leader di una
destra irrecuperabile, che per lucrare una miserabile rendita
elettorale in vista del voto del 25 maggio non esita a inventare il
solito «nemico esterno», cioè la Germania. A evocare il «non
evocabile », cioè i lager. Ad accostare l’inaccostabile, cioè il
Fiscal Compact con la Shoah. C’è dunque lo stesso nichilismo
morale dell’ex premier di un governo impresentabile, che per
difendersi dalle critiche dei socialisti europei dà del «kapò» a
Martin Schultz.
L’accusa al presidente della
Repubblica e ai magistrati, colpevole il primo di avergli negato la
grazia e i secondi di averlo infangato con una «sentenza mostruosa»,
è un’offesa alla legalità, prima ancora che alla verità. Sono
tristemente note, le spallate continue che lo «statista» di Arcore
ha tentato di assestare al sistema dal 1994 ad oggi, tra leggi ad
personam e intimidazioni ai pm, alla Consulta, al Quirinale. Ma non
erano altrettanto note le rivelazioni fatte dallo stesso ex
Cavaliere, che a «Piazza pulita» afferma impunemente di aver detto
al Capo dello Stato «tu hai il dovere morale di darmi la grazia motu
proprio». In questo «atto sedizioso» si racchiude, tutto intero,
il berlusconismo. L’idea malsana che l’unzione popolare purifica
da tutti i reati e da tutti i peccati. Che le istituzioni ne debbano
solo prendere atto, compiendo di propria iniziativa il passo che il
pregiudicato non vuole richiedere, perché questo equivarrebbe a
riconoscere la sua responsabilità penale. Che la Costituzione,
formale e materiale, si debba snaturare per questo, introiettando
l’anomalia cesarista di un cittadino che si pretende diverso da
tutti gli altri, dentro e fuori dalle aule di giustizia, e che
pertanto va considerato «legibus solutus» per il passato, il
presente e il futuro. Se la rivelazione berlusconiana è vera (e non
c’è ragione di credere che non lo sia) bisogna ringraziare una
volta di più Giorgio Napolitano, per non aver ceduto di un
millimetro e non essersi prestato a questo scempio etico, giuridico e
politico.
Quanto alla «sentenza mostruosa», in
un Paese che perde troppo facilmente la memoria non finiremo mai di
ricordare che la condanna dell’ex Cavaliere nasce dalla gravità
del reato commesso, accertato senza alcun ragionevole dubbio nei tre
gradi di giudizio: una frode fiscale da 7 milioni di euro, parte di
una provvista in nero da 370 milioni di dollari con i quali il
condannato pagava mazzette a magistrati, funzionari pubblici e
parlamentari. Cosa ci sia di «mostruoso», nell’espiare un delitto
così grave assistendo gli anziani per un pomeriggio a settimana, lo
vede chiunque. Berlusconi è l’opposto che un «perseguitato». Pur
essendo riconosciuto come «persona ancora socialmente pericolosa»,
ha beneficiato di uno «statuto speciale» che non limita la sua
«agibilità politica» né preclude la sua campagna elettorale
(cominciata infatti proprio con le armi distruttive dell’anti-
europeismo e dell’anti-Stato).
Resta da chiedersi perché Berlusconi
continui imperterrito a sparare sul Colle e sulle toghe, dal momento
che la Sorveglianza gli ha concesso i servizi sociali purché si
attenga alle «regole della civile convivenza, del decoro e del
rispetto delle istituzioni » ed eviti le frasi «offensive» e di
«spregio nei confronti dell’ordine giudiziario». La risposta può
essere una sola: l’ex Cavaliere provoca, e forse spera che la
magistratura sia costretta suo malgrado a dovergli revocare
l’affidamento alla Sacra Famiglia, e a disporre gli arresti
domiciliarsi. Sarebbe il famoso «finale da Caimano». Il pretesto
definitivo per lanciarsi da «martire della libertà» nel fuoco
della battaglia elettorale. La scelta estrema per cercare di risalire
l’abisso dei consensi in fuga, per sottrarsi all’»abbraccio
mortale» con Renzi e per recuperare posizioni su Grillo che il 26
maggio rischia di diventare almeno il più grande partito italiano
dopo il Pd, pronto per l’eventuale ballottaggio previsto
dall’Italicum. È questo, dunque, il grumo di rabbia sociale e
politica con il quale il governo e il Pd renziano devono fare i conti
nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Un gioco al massacro
tra il populismo berlusconiano e il populismo grillino. Il terreno
peggiore, per costruire e tenere in piedi il cantiere delle riforme.
Bertone si difende “Papa
Francesco è informato ristrutturazione a mie spese. L’appartamento mi è stato concesso in uso Strumentale
confrontarlo con le presunte ristrettezze del pontefice”
MARCO ANSALDO
Come diceva il Santo Pontefice Giovanni
XXIII “non mi fermo a raccogliere le pietre che sono scagliate
contro di me”». Non si ferma, ma si difende il cardinale Tarcisio
Bertone, dopo le critiche piovutegli addosso per il maxi appartamento
che presto andrà ad abitare. Un attico grande svariate centinaia di
metri quadrati, completo di terrazzo, a Palazzo San Carlo, in
Vaticano, di fianco a Casa Santa Marta dove, in un bilocale di 70
metri, risiede invece Papa Francesco.
L’ex segretario di Stato, sostituito
sei mesi fa dal Pontefice, ha inviato una lettera ai settimanali
diocesani di Vercelli e Genova, dove fu arcivescovo. «Nei giorni
scorsi — scrive — alcuni media hanno parlato in maniera malevola
a proposito dell’appartamento che abiterò in Vaticano e, per
rincarare la gogna mediatica, “l’informatore” ne ha raddoppiata
la metratura. È stato detto che il Papa si sarebbe infuriato con me
per tanta opulenza. Addirittura è stato messo a confronto lo spazio
del “mio” appartamento con la presunta ristrettezza della
residenza del Papa. Sono grato e commosso per la telefonata
affettuosa che ho ricevuto da Papa Francesco il 23 aprile scorso per
dirmi la sua solidarietà e il suo disappunto per gli attacchi
rivoltimi a proposito dell’appartamento, del quale era informato
fin dal giorno in cui mi è stato attribuito. L’appartamento
spazioso, come è normalmente delle residenze del Vaticano, e
ristrutturato (a mie spese), mi è concesso in uso e dopo di me ne
usufruirà qualcun altro».
Il messaggio è stato diffuso il 27
aprile, giorno della canonizzazione dei due Papi Roncalli e Wojtyla.
Dunque ben una settimana dopo che, principalmente sul Quotidiano
nazionale e su Repubblica, apparisse la notizia della mega residenza
del cardinale. L’unione degli appartamenti in uso all’ex capo
della Gendarmeria, Camillo Cibin, e a monsignor Bruno Bertagna, tutti
e due deceduti, viene data attorno ai 700 metri. Ora, in attesa
eventualmente di una planimetria chiarificatrice, l’ex segretario
di Stato parla della metà. Data per buona la sua parola per un
appartamento di “soli” 350 metri quadrati, si tratta comunque di
una metratura 5 volte superiore a quella dell’attuale Pontefice,
che vive nella casa a fianco, al secondo piano, e non in un attico.
In più, c’è da calcolare il terrazzo. Terminati infatti i quattro
mesi di ristrutturazione dell’appartamento, sono ora in corso
quelli della parte esterna, come rivelano le attuali impalcature.
Piuttosto singolare poi la frase del cardinale circa «la presunta
ristrettezza della residenza del Papa». Che cosa vuol dire, Bertone:
che Francesco non vive in realtà in 70 metri? E perché quella
ristrettezza sarebbe solo «presunta »? È una frecciata nei
confronti del Pontefice?
Infine, la telefonata ricevuta da parte
del Papa il 23 aprile precederebbe di un solo giorno un tweet di
Francesco, collegato secondo la stessa agenzia Ansa in Vaticano con
«le polemiche sui maxi-appartamenti dei cardinali» che «non hanno
lasciato indifferente Papa Francesco, che ha voluto dire la sua con
un preciso, e quanto mai significativo, richiamo alla sobrietà ».
Ha scritto infatti Bergoglio: «Uno stile di vita sobrio fa bene a
noi e ci permette di condividere meglio con chi ha bisogno».
Commenta da Genova, dove la lettera di
Bertone è stata pubblicata sul settimanale cattolico Il Cittadino,
don Paolo Farinella, biblista, parroco nel centro storico, da sempre
impegnato nel sociale: «Bertone deve vergognarsi. È solo un uomo di
potere. Fossi il Papa lo farei dimettere subito da cardinale. Non si
può, noi viviamo a contatto con la gente che muore di fame, Bertone
è senza ritegno. Uno schifo, col Papa che vive in 70 metri quadri».
"Fare veloci è l'unico modo per dare un segnale di credibilità in
Europa. Faremo tutti gli sforzi fino all'ultimo giorno per trovare un
punto comune, altrimenti sono pronto a fare un passo indietro. A tutti i
costi io non ci sto, o così o vado a casa".
Berlusconi e Grillo attaccano, provocano, estremizzano. Una parte
di elettori andrà loro dietro. Il Pd non può limitarsi alla "solita"
parte razionale e logica, il premier dovrà mettere un po' della sua
follia. E della critica all'Europa
Qual è il rischio di una campagna elettorale nella quale giocano
solo tre protagonisti, e due di loro si comportano come matti
scatenati, determinati a occupare il centro della scena con provocazioni
ed esagerazioni continue? Ovvio. Il rischio è che il terzo, ancorché
non sia davvero una personalità incolore, finisca fuori quadro,
schiacciato nella parte che meno gli si addice (visto che ovviamente
stiamo parlando di Matteo Renzi): quella dell’uomo di Palazzo, impegnato
nelle mediazioni per portare a casa le riforme, costretto al rispetto
delle buone relazioni internazionali, limitato nella propaganda dal
proprio ruolo, dalle responsabilità, dal timore di rompere il delicato
equilibrio fra partiti in parlamento. Alla fine saremmo sempre lì, allo
schema che spesso ha condannato la sinistra nei suoi scontri elettorali
con Berlusconi: razionalità contro emotività; logica contro
improvvisazione; responsabilità contro follia. Con l’aggravante che
adesso di folli, improvvisatori e irrazionali ce ne sono due. E che
nessuno può essere sicuro di quale sia l’umore degli italiani: oggi su Europa
ci occupiamo di quanto l’attacco alla Germania da parte di Forza Italia
e Cinquestelle abbia qualcosa di scientifico, nel suo insinuarsi nelle
pieghe profonde dell’atavico sentimento italiano verso i tedeschi. Può
darsi – anzi, è sicuro – che Berlusconi e Grillo trovino orecchie
disposte a recepire il loro messaggio distruttivo. Certo, è improbabile
che si tratti di cittadini che sarebbero mai disposti a votare Pd.
Berlusconi e Grillo si contendono un’area limitrofa del mercato
elettorale. E c’è nel Pd chi pensa che tutto sommato non sarebbe male se
Forza Italia si riprendesse un po’ della sua gente dispersa. Ma la cosa
veramente importante è che Renzi riesca a giocare due ruoli. Quello
della responsabilità insieme a quello dell’orgoglio del risveglio
nazionale contro l’Europa fredda e arcigna della tecnocrazia. Un
risveglio fatto di cambiamenti concreti, non di battute allucinanti,
revanscismi antistorici o minacce apodittiche. Razionalità, dunque,
insieme a emotività. Follia sana contrapposta a follia nera. Un
messaggio positivo (contro due avversari che puntano tutto sulla
negatività) ma non piattamente rassicurante. Nella speranza che l’Italia
abbia in maggioranza un sentimento migliore di quello al quale si
appellano Grillo e Berlusconi.
La
notizia di un incontro a Roma per dare vita ad un'area riformista del
PD desta più di una perplessità.
Innanzitutto,
dopo una fin troppo lunga, ma necessaria, stagione di primarie e
soprattutto dopo la chiusura del congresso del PD sarebbe buona
cosa, vista la campagna elettorale imminente, che ci si dedicasse con
impegno e spirito di squadra ad una affermazione convincente alle
elezioni europee e a quelle amministrative.
La
storia si ripete? Non sempre.
Che
cosa si sarebbe potuto scatenare se dopo le primarie Bersani-Renzi,
lo sconfitto avesse preferito pensare ad organizzare la propria
corrente, anzichè (come ha fatto), girare l'Italia per sostenere le
buone ragioni del partito democratico? Anche questi sono segnali
inequivocabili della maturità e del senso di responsabilità di una
classe dirigente, elementi che marcano le differenze tra chi
ostinatamente, con la testa rivolta al passato, non intende
assecondare e facilitare i processi di cambiamento necessari al
nostro Paese.
Secondariamente,
il Paese ha bisogno di messaggi chiari e di politiche efficaci.
Non
è difficile comprendere che la situazione è tuttora molto critica e
complessa e che solo dopo aver raggiunto alcuni obiettivi ci sarà
tempo per discutere e meglio definire i compiti, i ruoli e le
responsabilità dentro il partito democratico.
C'è
una parte del partito che si è messo contro tutti i provvedimenti
dal governo Renzi, dal decreto lavoro alla riforma del Senato, alla
nuova legge elettorale. Non si vuole negare che alcune modifiche ai
progetti di legge presentati siano necessarie, non tutto ciò che
propone Renzi è da prendere a scatola chiusa. Sarebbe bene tuttavia
che ciò avvenisse con spirito di collaborazione e con metodo
costruttivo. Appunto come in una squadra all'attacco. Purtroppo,
invece, forse per il lungo periodo in Parlamento, alcuni esponenti
del partito democratico sono impegnati prevalentemente in
operazioni di disturbo e non hanno ancora realizzato che la
maggioranza al governo è espressione della stessa squadra.
Pare
emergere, in maniera sempre più evidente, una pericolosa saldatura
tra vecchi e nuovi conservatorismi. Se questa situazione permane è
evidente il tentativo di azzoppare non solo il premier ma la stessa
forza del partito democratico. Senza dimenticare che il ritorno
alle urne resta una possibilità tutt'altro che remota.
Un De Mita è per sempre, come il diamante della pubblicità. Benvenuti a Nusco, 914 metri sul livello del mare, 4800 abitanti immersi nelle brume dell’Irpinia profonda. Qui la storia si è fermata agli anni ruggenti della Prima Repubblica, quando Silvio Berlusconi pensava solo ai danè, Beppe Grillo faceva ridere in tv e Tangentopoli era lontana. E “la storia sono io, non il vecchio, né il nuovo. Io sono la storia” .
L'intesa tra al Fatah e Hamas ha un paio di precedenti negativi ma
questa volta il quadro mediorientale è diverso. Gli Stati Uniti contano
meno e i principali player della regione si stanno riposizionando
Dicono, israeliani e americani, che l’intesa raggiunta mercoledì
scorso tra l’ala politica laica e l’ala politica religiosa del
movimento palestinese li ha colti di sorpresa. Crederci, che siano stati
spiazzati, è difficile. Se è così, è semmai la loro ingenuità politica
che sorprende. Chiedersi se sia vero che non l’avessero previsto, che
non l’avessero previsto neppure i servizi segreti israeliani, come hanno
detto i loro capi a Haaretz, è comunque secondario. La
principale domanda riguarda la consistenza reale e la durata
dell’intesa. Al Fatah, partito guida dell’Organizzazione per la
liberazione della Palestina, e Hamas non comunicano tra loro dal 2007,
quando la fazione islamista assunse il controllo di Gaza con un violento
colpo di mano, costringendo all’esilio i dirigenti dell’Olp e sbattendo
in prigione quelli di loro che erano rimasti nella Striscia. Nel 2011,
al Cairo, ci fu un tentativo di riconciliazione. Fallito. Nel 2102 ce ne
fu un altro a Doha. Anch’esso fallito. I contenuti delle due intese
finite male erano grosso modo gli stessi del protocollo concordato a
Gaza nei giorni scorsi. Tra questi la costituzione di un governo
“tecnico” a termine, per il tempo necessario, alcuni mesi, per preparare
nuove elezioni politiche.
In realtà, il richiamo ai due precedenti insuccessi è fuorviante, non
implica che anche questa volta il “patto di unità” si debba rivelare un
miraggio, con grande beffa per i palestinesi di Gaza, Cigiordania e dei
campi libanesi e giordani scesi in strada a festeggiare entusiasti
l’accordo siglato nella residenza di Ismail Haniyeh, il capo del governo
di Gaza. Il conflitto israelo-palestinese e gli equilibri interni alla
realtà politica palestinese vanno sempre visti in relazione con lo
scenario mediorientale più ampio, in un continuo gioco di influenza
reciproca. Rispetto al 2011 e al 2012 la situazione mediorientale è
cambiata. Vale la pena osservare che nella regione c’è un nuovo muoversi
delle cose, c’è un intrecciarsi di situazioni che costituisce il
retroscena dell’intesa e al tempo stesso ne indica i possibili sviluppi.
Tutto fa pensare che questa volta il quadro complessivo renda più
plausibile la tenuta del “patto”. In ogni caso, è probabile che si sia
di fronte a un nuovo capitolo della vicenda palestinese, con al centro
anche la definizione della leadership futura.
Restando all’ambito dell’accordo, va innanzitutto tenuto presente il
ruolo dell’Egitto. È stato giustamente notato che uno degli artefici
dell’incontro di Gaza e membro influente dell’ufficio politico di Hamas,
Mousa Abu Marzouk, residente al Cairo, ha avuto il beneplacito
dell’uomo forte egiziano, Abdel Fattah al Sisi per prendervi parte. Come
si sa i Fratelli Musulmani e gli stessi dirigenti di Hamas in Egitto – i
due movimenti sono legati tra loro – sono sottoposti a una dura
repressione da parte del regime di al Sisi. Nei giorni scorsi, inoltre,
lo stesso al Sisi aveva avuto un colloquio con Mohammad Dahlan,
personaggio di grande potere tra i palestinesi di Cisgiordania. 52 anni,
conosciuto anche come Abu Fadi, a lungo responsabile dei servizi
segreti palestinesi, è in aperta rotta di collisione con Abu Mazen e la
sua cerchia, che accusa d’incapacità debolezza, corruzione e nepotismo.
Ricambiato con accuse di collaborazione con Israele e perfino di essere
dietro la morte di Arafat, fino all’espulsione da al Fatah. Dahlan è
popolare anche nei campi palestinesi in Giordania e in Libano, ha buone
relazioni con gli Emirati Arabi, dove vive in esilio, e con l’Egitto,
che vede in lui, data la sua popolarità anche a Gaza, un contrappeso al
potere di Hamas. Di recente sua moglie, Jalila, in visita nella
Striscia, ha annunciato in un’intervista a al Monitor l’intenzione di Dahlan di candidarsi alle presidenziali, o nelle liste di al Fatah o come indipendente.
L’unico in grado di tener testa a Dahlan, anzi di sconfiggerlo, per ammissione stessa di Jalila, sarebbe Marwan Barghouti, il Mandela palestinese nelle
carceri israeliane dal 15 aprile 2002. Nonostante i dodici anni
trascorsi in galera, Barghouti è il politico più popolare in Palestina
e, secondo tutti i sondaggi, batterebbe sia Abu Abbas sia Ismail Haniyeh
in un’eventuale corsa presidenziale. È considerato l’unico in grado di
negoziare un accordo con Israele, farlo accettare al suo popolo, unire
le fazioni palestinesi e avviare un processo di “verità e
riconciliazione” in un paese indipendente. Ma gli israeliani saranno
abbastanza lungimiranti da consentirgli di tornare libero e attivo?
Egitto, Israele, Turchia nella partita
Come si vede, Egitto e Israele, direttamente o indirettamente,
possono influire su quanto accade nel perimetro del potere palestinese. E
non sono i soli. La Turchia, l’altro grande player regionale, ha
lavorato negli ultimi anni per avere voce in capitolo in Medio Oriente,
sostenendo i Fratelli Musulmani e Hamas, mentre, nel frattempo, si
adoperava per il crollo del regime di Assad. Gli eventi sono andati
nella direzione opposta rispetto a quella auspicata da Recep Tayyip
Erdogan. Ma il premier turco non ha smesso di “fare politica” nella
regione. Con Israele sembra esserci volontà di tornare a relazioni
normali, riprendendo la trattativa sul risarcimento da parte israeliana
delle famiglie delle vittime del raid contro gli attivisti turchi di
Mavi Marmara, un episodio che aveva portato alla rottura tra i due
paesi. Intanto Ankara non ha fatto mancare il suo pieno sostegno al
“patto di unità” tra palestinesi.
Su un altro versante, quello iraniano, si registrano importanti
novità, sia sul fronte della questione nucleare sia su quello dei
rapporti con i sauditi e dunque con il mondo sunnita. Il governo di
Hassan Rouhani procede lungo il suo percorso riformista, tenendo fede
agli impegni assunti sul nucleare (anche, tra l’altro, facendo fuori
dalla squadra dei negoziatori quelli che remano contro) e, attraverso
l’ayatollah Hasheni Rafsanjiani, ha aperto un’inedita linea di dialogo
con Riyadh. L’Iran è stato uno dei sostenitori di Hamas, ma lo scoppio
del conflitto in Siria, ha messo in discussione la relazione tra il
regime sciita e il movimento sunnita.
Il declino americano nel puzzle mediorientale
I diversi pezzi del mosaico mediorientale, tutti per aria dopo la
guerra in Iraq, peraltro non chiusa, e con il conflitto in corso in
Siria, si stanno riposizionando, e in questo fermento si ripropone la
questione palestinese, con i suoi complessi intrecci con i diversi
centri di potere nell’area. Il fermento nella regione è anche legato
all’evidente e crescente disinvestimento americano in Medio Oriente,
dettato sia dalla crisi economica sia dal restringimento delle spese
militari sia dalla crescente capacità energetica dell’America, diventato
paese esportatore e non più strategicamente dipendente dal petrolio
mediorientale. C’è un evidente scollamento perfino nella relazione
speciale tra Usa e Israele, come testimonia – su un altro scacchiere –
la neutralità israeliana sulla questione ucraina.
L’insuccesso dei tentativi di John Kerry, tesi a rilanciare il
processo di pace israelo-palestinese, va visto anche in quest’ottica.
L’America non è più considerata, da Israele stessa, un giocatore
decisivo in Medio Oriente. Anche la riluttanza a immischiarsi nel
conflitto siriano è stata vista come un sintomo inequivocabile, è
considerata la spia di questa nuova fase di crescente disimpegno. Ed è
un bene. Forse è davvero l’inizio di un periodo nel quale i paesi, i
popoli, i governi della regione si assumano pienamente la responsabilità
del destino loro e della regione, cercando la via del dialogo, dopo una
lunga e travagliata storia di conflitti che hanno impoverito tutti. Lo
stesso patto di unità tra i palestinesi è un segno in quella direzione.
Il 24 aprile scorso, festeggiando i suoi novant’anni, l’icona della
sinistra israeliana, Uri Avneri, si è detto ottimista sul futuro del suo
paese e della regione. Parlando con Haaretz, ha detto:
“Avverrà un miracolo. Potrebbe avvenire in modo duro, forse preceduto da
una catastrofe. La coscienza dell’opinione pubblica israeliana deve
attraversare un cambiamento. Come quello che accadde quando Sadat scese
dell’aeroplano (arrivando in Israele nel 1977). Questa è l’essenza del
miracolo. Prima o poi i due popoli dovranno andare d’accordo”.
Ho scritto qualche tempo fa che verrà il tempo in cui Scalfari metterà un pistolotto sul domenicale di Repubblica per contestare la data di nascita di Matteo Renzi. Quello che non pensavo è che scadesse così in basso. Scrive su Repubblica di domenica: "L'attuale presidente del Consiglio è, come più volte ho detto, il figlio buono di Berlusconi, il principe di seduttori; i
programmi vincolati alla coerenza non sono il suo forte. Il seduttore
vive di annunci e aspira alle conquiste. È un dongiovanni come
Berlusconi: non si innamora ma vuole sedurre. Se la seduzione non
funziona, cambia obiettivo e sposta il tiro. La sua donna Elvira è la
Boschi, come la Gelmini lo è per il Berlusca. Il suo Leporello è Delrio
come per l'altro è stato Dell'Utri."
Non sa più che scrivere....e io non ho parole... ricordo solo un particolare: in politica non ci ha mai azzeccato ma non se n'è mai accorto e persevera.
Pubblicato il 26 aprile 2014, da Politica Italiana
Paolo Giarretta
Neppure Renzi riesce a cambiare le
cattive abitudini della politica italiana e a far superare l’istinto
tafazzista della sinistra? Abbiamo avuto Prodi e l’abbiamo buttato,
abbiamo avuto Veltroni e l’abbiamo buttato e ora anche Renzi è alle
prese con l’eterno fare e disfare, con l’idea dell’immobilismo?
Sono solo piccole crepe ma intanto già hanno effetto sui sondaggi ed è
cessata la crescita del PD. Io penso perché sta tornando una immagine
del solito partito, che decide una cosa e poi non la mantiene, che apre
infinite discussioni, fatte anche di buoni motivi, ma poi di
protagonismi individuali, di rese dei conti interne. Vedo con
preoccupazione che una parte dei nostri gruppi parlamentari non ha
ancora capito quanto sia cambiato il mondo e quanto sia in pericolo la
tenuta democratica del paese. Pensano sempre che vi sia tempo, che si
possa spaccare il capello in quattro, non capiscono che un paese
sfiduciato ha bisogno di risultati immediati. Magari imperfetti ma
tangibili.
Nonostante le inconcludenze nella vita parlamentare, l’incapacità di
fare una opposizione costruttiva, la deriva padronale, il M5S conserva
un elevato consenso tra i cittadini italiani. Unendo elettori di
sinistra e di destra. Un populismo a 360 gradi. Renzi sta provando, e ci
sta riuscendo, a reintrodurre una fiducia tra popolo e istituzioni, per
fare le cose e non limitarsi a sputare su tutto e su tutti. Ma sembra
che non vi sia piena consapevolezza in tutti di quanto deteriorato sia
il rapporto.
Prendiamo la questione del Senato. Intendiamoci: nel merito esistono
diversi modelli nelle democrazie europee, senati elettivi e senati con
elezioni di secondo grado e non è che gli uni siano meno democratici
degli altri. Non è una eresia proporre come ha fatto il Governo un
Senato eletto da “grandi elettori” ed è sostenibile che possa esistere
un Senato con i compiti ridotti ma essenziali per il buon funzionamento
della democrazia parlamentare che conserva un rapporto di mandato
elettorale con il popolo, magari prevedendo le elezioni contestualmente a
quelle dei consigli regionali.
Il punto è un altro. E’ che dietro queste posizioni si manifestano
due resistenze. Quella politica che non vuole che Renzi abbia successo.
Comprensibile in Berlusconi: partito in caduta verticale, comprende che
il successo di Renzi sulle riforme lo rafforzerebbe ancora di più. Non
comprensibile e politicamente criminale la resistenza interna, di chi
non comprende l’occasione unica che offre Renzi al PD: riaprire la
fiducia, ridare al partito quella centralità nell’opinione pubblica che
già aveva avuto con Veltroni e che è stata buttata via per ostinati
conservatorismi.
Poi c’è un’altra resistenza, più nascosta ma comunque robusta. Quella
delle grandi burocrazie dello Stato che Renzi ha incominciato ad
attaccare. Che ho conosciuto bene e che trovano sempre in Parlamento
delle alleanze. Grandi burocrati che sussurrano all’orecchio dei
senatori che bisogna difendere la dignità del Senato e che trovano
sempre orecchi pronti ad ascoltare, più pronti ad ascoltare il palazzo
che il paese. Purtroppo anche in casa nostra. Ricordo molto bene
nell’ultima legislatura la sordità di nostri senatori (non a caso
firmatari ora del ddl Chiti) sul tema della riduzione dei costi del
Senato, della creazione di servizi unificati tra Camera e Senato, ecc.
La letteraccia che ricevetti proprio da Vannino Chiti perché avevo osato
sostenere che i costi per le segreterie particolari delle Presidenze e
vicepresidenze del Senato erano vergognosi.
Questa è la battaglia in corso e mi meraviglio che non la si voglia
capire, che si pensi appunto che ci sia ancora spazio per i giochi della
mala politica: temporeggiare, sgambettare, conservare.
Bisogna ora prendere una iniziativa: si facciano le mediazioni
necessarie (Renzi lo sa e ha dimostrato di possedere anche questa
abilità) ma al giudizio degli elettori del 25 maggio occorre portare
risultati. Gli ottanta euro ci sono ora occorre dimostrare che la
politica è capace di riformarsi.
In assenza di Laura Boldrini, impegnata a cantare «Bella Ciao»
altrove, toccava al vicepresidente Roberto Giachetti rappresentare la
Camera dei Deputati alle cerimonie romane del Venticinque Aprile.
Giachetti è un Pannella serio, un digiunatore intemerato allergico alla
cravatta e all’etichetta. Pur avendo diritto all’autoblù, vi ha
rinunciato per poter scorrazzare con la sua moto privata, e nemmeno
celeste, fino all’Altare della Patria.
Giunto all’altezza della Bocca della Verità, è stato fermato a un
posto di blocco da due vigili urbani. Giachetti si è tolto il casco e ha
spiegato di essere uno degli invitati, come tale autorizzato a rombare
nella zona momentaneamente preclusa al traffico. Ma i vigili gli hanno
risposto che per motivi di sicurezza l’accesso al cuore politico della
Capitale era consentito soltanto alle autoblù.
Giachetti ha subito colto l’ironia dell’intera vicenda: tutti pronti a
tuonare contro i simboli del potere, poi appena qualcuno vi rinuncia
viene trattato da intruso. Invece i pizzardoni non l’hanno colta. Il
loro ruolo li dispensa dall’essere ironici. Devono (dovrebbero) far
rispettare le regole. Persino quando, come in questo caso, le regole
sono in palese ritardo rispetto alla sensibilità dei cittadini. Alla
fine il buon Giachetti ha parcheggiato la sua moto non blu accanto alla
Bocca mozza-bugiardi e ha raggiunto Napolitano a piedi, dopo una vasta
camminata archeologica. Siamo orgogliosi di lui. Però anche dei vigili.
Hanno fatto tutti la cosa giusta: ogni tanto capita, il Venticinque
Aprile.
Il 23 sera è passato, la consegna ufficiale delle liste è passata, i nomi sono sui giornali. Quindi saprete che non sono candidato nella lista Insieme per Coccaglio... [il resto sul blog di Filippo Filippini]
Salvare il Vaticano II e al tempo stesso far tacere le voci
critiche; mostrare la Chiesa del XXI secolo, ferma nel proseguire la
linea del rinnovamento e dell’apertura indicata dal concilio
Per i cattolici, la canonizzazione è un procedimento giuridico e
un atto di fede. Dichiarare qualcuno santo vuol dire proclamare la
certezza che egli, sia pure con gli errori e le debolezze di qualunque
essere umano, ha «vissuto in modo eroico le virtù cristiane»: e che di
tale pratica di virtù ha dato prove concrete, che hanno lasciato il
segno.
Tale realtà va sottoposta a una vera e propria verifica processuale, con accurata escussione di prove e di testimoni.
Gli Atti di una canonizzazione, preceduta da fasi di verifica
preliminare (al termine di ciascuna delle quali il candidato santo viene
proclamato “Venerabile”, “Servo di Dio”, “Beato”), riempiono di solito
spessi volumi. Al termine di questo laborioso processo, che può essere
anche molto lungo (Francesco d’Assisi venne proclamato santo solo due
anni dopo la morte; per far santa Giovanna d’Arco, fatta ardere viva da
un tribunale inquisitoriale come eretica, c’è voluto quasi mezzo
millennio), nessuno che si dica cattolico può dubitare che chi sia stato
canonizzato sia davvero “santo”, cioè viva spiritualmente in eterna
grazia di Dio (“in Paradiso”, come si usa dire). La canonizzazione dei
santi è uno degli in verità pochissimi casi nei quali la Chiesa proclama
la propria infallibilità come speciale prerogativa concessale da Dio.
In altri termini, la canonizzazione è un fatto rigorosamente interno alla Chiesa cattolica, che si può intendere solo iuxta propria principia.
Obiettare che tale o tale santo avrebbe motivi storici o di altro tipo
per non sembrare poi troppo esemplare, è cosa tanto vana quanto inutile.
Durante il processo di canonizzazione, chiunque può addurre prove – e,
se è cattolico, avendone deve farlo – che possano inficiare il processo;
il farlo dopo non ha senso, in quanto la sentenza garantita
dall’infallibilità è per sua natura inappellabile; il sollevar dubbi
alla luce di altre valutazioni o di princìpi che non sono quelli della
Chiesa significa mischiare elementi culturalmente eterogeni fra loro.
Ciò premesso, non ha senso continuar a chiederci, ora che le causa di
canonizzazione di Angelo Roncalli e di Karol Wojtyła sono concluse, se
l’uno o l’altro dei due pontefici abbia davvero meritato la gloria degli
altari o se si sia trattato di una scelta pregiudiziale e unilaterale
da parte della Chiesa. La prima domanda, sarebbe ingenua; la seconda,
tautologica.
Ha invece senso, eccome, chiedersi che cosa queste due canonizzazioni
contemporanee significano in questo particolare momento della vita
della Chiesa, dal momento che si tratta di due papi entrambi molto amati
e popolari, entrambi fortemente carismatici, molto diversi però fra
loro non tanto e non solo sotto il profilo caratteriale, bensì anche
sotto quello della loro funzione nella storia della Chiesa.
Giovanni XXIII, un papa dotato di una vasta esperienza diplomatica –
era stato nunzio in due situazioni difficili, nella Turchia kemalista e
nella Francia di Vichy – è il pontefice “progressista” che ha “aperto la
Chiesa al mondo” con il concilio Vaticano II, correndo il rischio di
quello che Jacques Maritain definì «l’inginocchiarsi della chiesa
dinanzi al mondo», cioè dinanzi alla Modernità laica e agnostica,
cercando con essa il colloquio.
Giovanni Paolo II, un operaio che aveva lottato contro il nazismo e
un vescovo che si era impegnato in un difficile braccio di ferro con le
autorità comuniste della sua Polonia, aveva fama di essere “socialmente
avanzato” ma non “progressista” (il che non è la stessa cosa). Appena
arrivato al soglio pontificio, avviò una politica segnata da tratti
gerarchicamente e liturgicamente tradizionalisti, avversò in America
latina la “teologia della Liberazione” e sembrò frenare per più versi
l’applicazione dei decreti del Vaticano II.
Papa Francesco è a sua volta giunto al soglio pontificio cinto dalla
fama di avere decise simpatie tradizionaliste, quindi ispirate a cautela
nei confronti di quelle che – del resto alcuni decenni fa – sembravano
le “innovazioni” conciliari; ma era noto anche per un’apertura sociale
che non solo ha confermato, ma che è addirittura diventata, specie nei
confronti degli “ultimi della terra”, il sigillo del suo pontificato
vòlto tutto, e con grande decisione, alla moralizzazione della vita dei
vertici ecclesiali da un lato e alla lotta contro quella che
splendidamente egli stesso ha definito “la globalizzazione
dell’indifferenza” dall’altro.
L’elezione di papa Francesco è avvenuta in un contesto che lasciava
intravedere una forte spaccatura verticale all’interno dell’alta
gerarchia della Chiesa; ma proprio per questo un papato “debole”,
attendista, non avrebbe fatto che peggiorare la situazione. Papa
Bergoglio ha obbligato la gerarchia e i fedeli a scegliere, a dichiarare
da che parte ciascun cattolico vuole stare. Ma egli si è anche
impegnato a dimostrare che questa non è la Chiesa che lui ha voluto,
bensì la Chiesa tout court, come dev’essere e come non può
essere altrimenti. Per questo, le due canonizzazioni complementari di
due papi che nella visione comune sono considerati “ai due estremi
opposti” della testimonianza cattolica e della funzione pontificia gli
erano indispensabili.
È una sfida, che somiglia molto alla quadratura di un cerchio.
Salvare il Vaticano II e al tempo stesso far tacere (e non semplicemente
ordinare che tacciano) le voci critiche nei confronti di esso; mostrare
una Chiesa di adesso, la Chiesa del XXI secolo, ferma nel proseguire la
linea del rinnovamento e dell’apertura indicata dal concilio e al tempo
stesso fedele a una tradizione quasi bimillenaria che indica la strada
del confronto con “il mondo”, ma non dell’acquiescenza nei confronti del
suo spirito. Si è detto spesso, in questi mesi, che l’unico modo per
legittimare una simile quadratura del cerchio sarebbe la richiesta di
una nuova esplicita verifica e di un nuovo impegno della gerarchia su
una strada chiaramente, limpidamente, indicata e accettata.
Un nuovo concilio. Che si prospetta d’altronde anche come un luogo
nel quale istanze inconciliabili potrebbero affiorare. Un’occasione
imperdibile e un inevitabile rischio. Questa appare, oggi, la sfida di
questo gesuita arrivato “quasi dalla fine del mondo”, che ha ridotto al
minimo i segni di solennità e di autorità del suo ufficio e che, in un
mondo segnato come non mai dalla barbarie della sperequazione sociale e
dallo spettacolo intollerabile del confronto tra l’opulenza dei
pochissimi e la miseria dei troppi, ingiuste entrambe, ha scelto di
chiamarsi come un Povero di otto secoli fa.
da quando è nato il Partito
democratico sono quasi sempre stato in minoranza, ho combattuto a
viso aperto le mie battaglie all’interno del gruppo parlamentare e
di fronte alle scelte della maggioranza mi sono sempre adeguato con
la lealtà che è dovuta nella vita democratica interna. Non di rado
quelle scelte che ho contrastato da dentro sono state la causa di
clamorose sconfitte politiche ed elettorali ma non sono mai scappato,
non mi sono mai sottratto alla responsabilità collettiva,
assumendole come sconfitte anche mie pur avendole energicamente
avversate all’interno del Gruppo.
Quello che sta accadendo oggi tra noi,
in particolare ma non solo sul tema delle riforme istituzionali, è
davvero inconcepibile nella vita democratica della nostra comunità
parlamentare. Tutto si ribalta e quelli che ieri erano maggioranza e
pretendevano fedeltà alle decisioni prese, oggi, con una
disinvoltura ed una leggerezza assai preoccupanti, rivendicano il
loro diritto non a dissentire - ci mancherebbe altro - ma ad
interdire le scelte che con i medesimi riti democratici in una
condizione nuova e, per fortuna, diversa, si assumono formalmente. Ho
sentito addirittura rivendicare il diritto all’obiezione di
coscienza sulle riforme istituzionali.
Si sta gravemente alterando il metodo e
si sta mettendo seriamente a rischio la volontà di coloro che oggi
sono il partito: i partecipanti alle primarie. Un costante tentativo
di guastare, di indebolire, di annacquare quelle riforme e quei
cambiamenti che in Italia non si sono fatti per vent’anni, spesso
per responsabilità primaria di chi oggi fa interdizione, e che molti
vogliono ancora rinviare magari sostituendoli con quelle fumose
chiacchiere che ci accompagnano da decenni. Questa azione interna al
partito si salda con il vasto esercito transpartitico di vecchi e
novelli conservatori che avvertono ogni possibile cambiamento e
riforma come il più grande rischio alla loro sopravvivenza politica.
Bada bene: parliamo di ceto politico
non di elettorato, perché credo che tu meglio di me sappia (lo
dicono tutti i sondaggi) quanto l’elettorato chieda riforme e
quanto apprezzi lo sforzo che stiamo tentando di fare, contro le
infinite resistenze diffuse in ogni dove dell’attuale potere
politico e non solo. Allora ti domando sinceramente: chi te lo fa
fare? Perché continuare? Al netto delle naturali e scontate critiche
che ovviamente vengono rivolte a chi governa da chi si oppone, ho la
sensazione che vi sia un palese accanimento contro a prescindere, una
convergente azione dentro e fuori il partito che punta a far saltare
ogni cosa a priori giocando sulla manifesta fragilità dell’assetto
politico sul quale si basa l’azione del governo. A questa
fisiologica attività di contrasto che si organizza in ogni dove, in
politica e nei cosiddetti poteri forti, nel partito e fuori, tanto
più accanita quanto è manifesto e diffuso l’apprezzamento
dell’elettorato per l’azione del Governo, non si può far fronte
sostanzialmente a mani nude, senza poter contare su una forte e leale
tenuta della maggioranza.
E allora torno: chi te lo fa fare? Se
consentito: chi ce lo fa fare? Non rischiamo solo di perdere tempo,
tempo di cui il nostro Paese non dispone più? Facciamolo un bel
referendum, caro Matteo. Chiamiamo gli elettori a decidere se tutto
quello che si è fatto e, soprattutto, quello che si vorrebbe fare, è
davvero così inutile, dannoso, deleterio per i nostri cittadini.
Spostiamo il dibattito nell’Italia vera, andiamo ad elezioni. Una
legge elettorale tutto sommato c’è, ci sono pure le preferenze
che, di sicuro (ce lo hanno spiegato loro!), aiuteranno a verificare
la consistenza di tante scelte politiche; andiamo a votare subito e
facciamo le cose che abbiamo in mente in un nuovo contesto politico.
Certo con questa legge elettorale
bisognerà fare un’altra maggioranza di coalizione ma sono sicuro
che i rapporti di forza saranno molto migliori per il PD e poi almeno
avrai il diritto e la possibilità di guidare un governo con un
gruppo parlamentare coeso e leale. Pensaci Matteo: chi te lo fa fare?
Facciamo saltare il tavolo di questo ceto politico e ascoltiamo gli
elettori!
Dietro all'opposizione alla riforma del senato si vede ormai chiaro
un disegno di ridimensionamento del premier. Questo potrebbe spingere
lui a rifiutare compromessi al ribasso, e a scatenare un'offensiva anche
all'interno del Pd.
Tutti nel mondo politico si chiedono quale possa essere il punto
di compromesso che Matteo Renzi potrebbe considerare accettabile per
far passare almeno un avanzo della sua riforma del senato. Rischia di
essere la domanda sbagliata. A meno che il premier non cambi idea
rispetto a una convinzione riproposta con forza da mesi, forse dovremmo
interrogarci sul conflitto politico – quanto distruttivo, contro quali
obiettivi – che Renzi potrebbe scatenare una volta che la strada di
palazzo Madama si confermasse per lui impraticabile.
Sapevamo fin dal giorno del patto del Nazareno
che le riforme costituzionali sarebbero state molto più difficili del
varo della legge elettorale, e che la fedeltà di Berlusconi alla parola
data sarebbe stata spesso oscillante. Era evidente nei giorni del battesimo parlamentare
del governo Renzi che l’aula del senato, da lui certo non blandita, si
sarebbe rivelata ostile e resistente. E si è capito da tanto tempo che
all’interno del Partito democratico c’è chi non considera affatto
prioritaria la salute della famosa “ditta”, non apprezza i livelli di
consenso al quale Renzi la sta conducendo, non ha alcuna intenzione di
prendere atto dell’opinione degli elettori delle primarie e – in
conclusione – più di ogni altro obiettivo persegue quello del
ridimensionamento del segretario del partito e presidente del consiglio.
Noi stessi su Europa abbiamo più volte sottolineato la necessità che su tutti i testi di riforma istituzionale, compreso l’Italicum,
fosse giusto soffermarsi, ragionare, emendare, aggiustare,
riequilibrare. È vero che le istituzioni devono funzionare secondo una
logica unitaria, con pesi e contrappesi ben calcolati, con tutte le
clausole di garanzia necessarie, e nei progetti presentati dal governo
non tutto era convincente sotto questi aspetti.
A questo punto del conflitto aperto da una minoranza del Pd
appoggiata dalle forze d’opposizione (non stupisce affatto l’asse che da
Grillo arriva a Berlusconi passando da alcuni senatori dem) c’è
l’impressione che non si tratti più di interventi nel merito delle
riforme. Sostanzialmente, i senatori (spalleggiati con comprensibile
entusiasmo e interessata dedizione dalla tecnostruttura di palazzo
Madama) vogliono azzoppare fin dal primo passaggio la riforma che doveva
abolire il bicameralismo, banalmente salvando il bicameralismo
medesimo, cioè l’essenza di ciò che Renzi propone di abrogare forte di
un vasto consenso popolare, specifici deliberati del suo partito e molti
anni di dibattito tra esperti. Berlusconi e Grillo prendono al volo
l’occasione di ferire un avversario elettorale che si sta rivelando
micidiale per entrambi.
Non ci sono i numeri in parlamento per fare altrimenti, dicono gli
stessi che si stanno dando da fare per comporre numeri favorevoli. Può
darsi. Renzi non può rischiare una bocciatura in piena campagna
elettorale europea, dunque l’iter della legge rimarrà aperto. Ma credo
che stia valutando la convenienza di alzare il tono dello scontro.
Imperniare una parte consistente del proprio appello agli elettori sulla
denuncia di resistenze, ostruzionismi, conservatorismi. Creare un clima
per cui i voti che prenderà il 25 maggio saranno poi rovesciati sugli
oppositori, innanzi tutto quelli interni. E c’è chi gli suggerisce (ieri Roberto Giachetti) di passare poi rapidamente a trasformare questo clima in aperta battaglia elettorale, in autunno.
Questo scenario scandalizza molti (di nuovo, nel Pd). Come se opporsi
a una linea assunta dal partito e dai gruppi fosse legittimo, e cercare
di piegare questa opposizione con una dura minaccia politica fosse
invece illegittimo. È un destino, per Matteo Renzi, che contro di lui
non debbano mai valere le regole di fair-play che invece da lui si pretendono.
Staremo a vedere. La soluzione migliore rimane, di gran lunga, un
compromesso ben scritto che si ponga al di qua dei paletti posti dal
governo, a cominciare dal no all’elezione dei senatori. Se la campagna
elettorale si rivelasse un momento inadatto all’approvazione di un buon
testo, l’essenziale dal punto di vista di Renzi sarebbe ricevere dal
senato un segnale politico comunque chiaro, inequivoco e irrevocabile.
In caso contrario, se la resistenza rivelasse il vero volto
dell’ostilità verso di lui, il leader del Pd e presidente del consiglio
tornerebbe ad avere mani libere. E nessuno potrebbe poi lamentarsi dei
colpi politici dati e presi.
Il progetto di integrazione
europea rimane l’unica possibile salvezza del Vecchio continente,
nella stagione della globalizzazione e della crisi della politica
moderna, a fronte del rischio di invecchiamento e di impoverimento
della società europea, contemporaneamente a quello di
marginalizzazione economica e politica internazionale dei vecchi
Stati e dei popoli dell’Europa. Il progetto europeo ha salvato la
pace di un continente che si era lacerato in un trentennio di
«guerra civile» distruttiva e ha accompagnato lo sviluppo e
l’avvicinamento dei diversi popoli europei. Appare assolutamente
dirimente ricordarlo oggi, proprio a cent’anni dallo scoppio
dell’«inutile strage» della prima guerra mondiale (come la
definì Benedetto XV). Ora, questo progetto resta l’unica
possibilità di futuro, in un mondo in cui giganti politici come
Cina o Stati Uniti condizionano sempre di più la pretesa asettica
libertà economica del mercato globale. In un mondo, per giunta, in
cui la crisi economica divenuta stagnazione strutturale mostra che
il rapporto tra politica, economia e finanza va profondamente
mutato. La crisi ha caratteri drammatici e chiede «più politica»,
proprio in tempi di «antipolitica» dilagante. Perché questo salto
in avanti della politica ci sia – e sia anche positivo – occorre
verificarla continuamente e misurarla sugli obiettivi e sui metodi.
A livello nazionale è ormai difficilissimo trovare modo di
cambiare: a livello europeo si può invece intravedere uno spiraglio
per l’innovazione.
Questa fiducia si scontra con il
paradosso dell’attuale crescita di sentimenti e posizioni
antieuropee. Occorre a nostro parere prendere sul serio le obiezioni
che circolano. Si parla di squilibri tra i diversi settori, di
egemonia di alcuni Stati su altri, di eccesso di burocrazia, di una
regolamentazione eccessiva, di carenza di democrazia, di vincoli
eccessivi della moneta unica. E’ certo che l’attuale struttura
dell’Unione sia riformabile, ma queste critiche sono in parte
frutto di opinioni errate o almeno forzate: ad esempio, non si può
criticare la tecnocrazia di Bruxelles quando sono spesso i governi
nazionali a frenare; oppure non si può sostenere che ci sia
l’egemonia di alcuni Stati se gli altri sono assenti o silenti nel
processo decisionale; non è vero che l’Europa serva a sprecare
soldi degli Stati virtuosi verso i lassisti del Mediterraneo, come
non è vero che l’Europa è la causa dei mali di chi si trova con
bilanci fuori controllo e alta disoccupazione: piuttosto c’è un
interesse comune degli uni e degli altri a trovare formule di Europa
forte; non si può pensare che la superiorità della legge europea
su quella nazionale sia frutto di un caso perverso, quando è stata
decisa proprio per salvare i governi democratici dal caos; non si
può temere il «super-Stato» europeo quando in tempi di crisi
tutti chiedono più tutele agli Stati; non si può credere al mantra
dell’Europa subalterna alle banche, quando l’unica forma di
regolamentazione efficace delle banche sta venendo dall’Europa;
non si può pensare che sia possibile «uscire dall’euro» senza
costi e rilanciare così l’economia nazionale, sottovalutando il
dramma dell’isolamento e della distruzione di risparmi e ricchezza
che questa scelta comporterebbe. Se queste polemiche appaiono quindi
infondate, altre critiche possono essere più ragionevoli e
addirittura necessarie, ma non portano a chiedere «meno Europa»,
quanto piuttosto «una diversa Europa», con istituzioni
rappresentative e capaci di decidere, oltre che con più
convinzione della solidarietà nell' interesse comune.
L’Unione europea che oggi
conosciamo è frutto di un cammino i cui promotori hanno sostenuto
che un accrescimento progressivo delle competenze avrebbe portato
quasi insensibilmente a una vera unione politica (era la tesi dei
«funzionalisti»). L’ultimo passaggio è stata la moneta unica:
cedere questo potere da parte degli Stati avrebbe di fatto
realizzato una nuova sovranità europea. Oggi questa promessa non ci
sembra credibile, perché siamo arrivati a un processo istituzionale
molto elaborato, ma la volontà politica comune è lontana e l’Euro
stesso soffre di questi limiti. Anche a questo proposito però c’è
un paradosso: qualsiasi strada che appaia più democratica è
bloccata dalle paure rispetto a processi di legittimazione
complicati e incerti (i referendum su un «salto di qualità
costituente» in alcuni paesi sarebbero difficili da vincere). Noi
però continuiamo a credere che l’obiettivo finale dovrà essere
una unione politica federale europea. Senza una coesione politica,
l’Europa resterà sempre monca e incompleta: il problema arduo è
come arrivarci. Per ora, in mancanza di alternative più credibili,
sembra necessario utilizzare gli spiragli che esistono già nelle
attuali istituzioni. Ad esempio, già le nuove regole del Trattato
di Lisbona chiedono al Consiglio europeo (dei capi di governo) di
indicare la presidenza della commissione «tenendo conto» del
risultato elettorale delle elezioni del parlamento, il quale dovrà
poi anche votare la commissione. Sono tutti passaggi democratici
inediti, che vanno nella direzione dell’unione politica che
vogliamo e quindi vanno valorizzati.
Allora, prendiamo sul serio le
elezioni di parlamento del 25 maggio. Non si tratta di un rito
stanco per creare un’istituzione debole. La posta in gioco sullo
sfondo di queste elezioni è invece alta e significativa. I
risultati elettorali (quanti cittadini voteranno, quali forze
politiche avranno la maggioranza) possono essere significativi
almeno su tre fronti diversi.
Superare l’austerità. L’azione
coraggiosa della Bce per ora ha salvato l’Euro, ma agendo al
limite dei trattati. L’Euro finora ha funzionato soprattutto come
vincolo di controllo per politiche di bilancio sane e stabili
(partendo dai «parametri di Maastricht» fino all’ancor più
rigido fiscal compact, che impone la riduzione progressiva dei
debiti a chi supera il tetto del 60% sul Pil). Tali istanze hanno
una loro giustificazione, ma se sono proseguite senza criterio in
tempi di recessione, diventano strumenti di un circolo vizioso
depressivo dell’economia. Se tutti tagliano la spesa pubblica, il
reddito crolla e il debito, in rapporto al Pil, non può scendere.
Occorre ora sperimentare tutte le caratteristiche dell’Euro come
elemento di una forte sovranità europea. Proprio l’esistenza di
una grande e solida moneta riconosciuta in tutto il mondo può dare
spazio per politiche espansive (come hanno fatto, ciascuno a suo
modo, Stati Uniti, Giappone e Cina). Occorre quindi costruire
un’autonomia maggiore per l’Eurozona all’interno dell’Unione
(il che è già una prospettiva aperta dal consiglio europeo alla
fine 2013). E indirizzare coscientemente questa autonomia verso un
vero e proprio new deal europeo. Il che significa accrescere il
bilancio comune con altre risorse proprie, raccogliere maggiori
finanziamenti sui mercati con gli Eurobond, tassare le transazioni
finanziarie speculative (una Tobin tax europea non deprimerebbe
l’economia reale e raccoglierebbe notevoli fondi, anche con
aliquote minime). Lanciare quindi con queste risorse un piano di
investimenti selettivi per una crescita sostenibile dell’economia
del continente. Questa strategia deve diventare l’altra faccia
del controllo di bilancio rafforzato e del fiscal compact. E’
interessante in questa direzione l’ “Iniziativa dei cittadini
europei” (Ice) che è stata proposta da alcuni organismi della
società civile: se essa raggiungerà un numero di firme
sufficiente, potrà essere un fattore di pressione nelle
istituzioni.
Rilanciare il modello sociale
europeo. Occorre affrontare in modo creativo la tendenza
all’invecchiamento delle popolazione e gli effetti di una
struttura economica meno flessibile rispetto ad altre parti del
mondo. Se ci faremo bloccare, accettando semplicemente di regredire
sul livello del Welfare, perderemo quell’originalità europea che
storicamente ci è stata invidiata, che è sostanzialmente riuscita
a «quadrare il cerchio» tra dinamicità economica e protezione
sociale. Nella dinamica della globalizzazione, questo rilancio è
impossibile su scala esclusivamente nazionale. Il Consiglio europeo
di ottobre 2014 è già stato programmato su questi temi (e quindi
anche la presidenza italiana del semestre prossimo potrà svolgere
un ruolo importante nel prepararlo). L’Europa è stata troppo
subalterna alla logica della finanziarizzazione e al ciclo politico
neoliberista globale, mentre ha conosciuto anch’essa una
divaricazione crescente dei redditi e dei patrimoni che è
deleteria per l’economia e per la società. Oggi ha il compito di
vincolare finalmente gli strumenti finanziari e riprendere il solco
della sobrietà, della ponderazione, della concertazione, della
solidarietà sociale, della integrazione ordinata degli stranieri.
L’Europa sociale non può che prendere forma attraverso un’ampia
consultazione delle realtà vive delle diverse società,
concordando modelli il più possibili comuni e convergenti. Il
Welfare non può infatti sopravvivere solo in alcuni Stati mentre
altri fanno competizione riducendo i loro costi. La cittadinanza
stessa e i diritti umani e civili – anche dei cittadini di nuova
immigrazione – non possono sopportare condizioni troppo
divaricate. Non neghiamo che si debbano ridiscutere i privilegi, ma
la cosa più importante è investire coraggiosamente sul futuro:
saranno i «paesi emergenti» ad avvicinarsi a noi (e non il
contrario), se saremo in grado di presentare la credibilità e la
sostenibilità di un sistema europeo di Welfare moderno.
Affermare un nuovo protagonismo
europeo nel mondo. L’Europa che in passato aveva unificato il
mondo con lo slancio dell’economia e anche con la pressione
imperialistica, oggi è di fronte al dilemma tra una crescente
impotenza e la costruzione di un modello nuovo di «potenza
civile». Per scioglierlo, occorre decisione e creatività. Si
dovrebbe utilizzare sempre più nelle relazioni internazionali il
modello cooperativo imparato dalle democrazie, attraverso la
composizione degli interessi e non l’imposizione di forme
egemoniche. Si tratta di un modello che non può che tornare a
valorizzare la cornice dell’Onu, dopo il discredito degli ultimi
anni. Occorre poi imparare dagli errori – si pensi alla storia
dei Balcani nel decennio ’90, al Medio Oriente, alle vicende
delle primavere arabe – e soprattutto superare le tentazioni
dell’azione in ordine sparso da parte dei singoli Stati verso il
mondo extra-europeo in una logica bilaterale perdente. Non ci sono
più «grandi potenze» che possono ragionare come i vecchi paesi
coloniali. Non basta cercare clientes, o limitarsi a esultare per
le rivolte che facciano cadere regimi autoritari: per consolidare
nuove democrazie occorre monitorare e accompagnare i processi,
affiancarli con saggezza e sostegni economici, perché abbiano
sbocchi positivi e fecondi. I casi aperti sono ancora molti, dal
Mediterraneo all’Ucraina (in molte situazioni dove il
nazionalismo è un pericolo da controllare). Ma tutto il mondo
africano è ad esempio naturalmente portato a guardare all’Ue con
una speranza che non va tradita.
Resta infine aperto un problema
culturale e comunicativo: l’Europa non è un dato di fatto, perché
gli effetti del passato pluralistico sono ancora forti. Non c’è
un unico popolo (demos) europeo consegnato dal passato, non c’è
lingua comune né storia comune (anzi, la storia è spesso un
elemento divisivo se non conosciuto con rigore e rielaborato
appropriatamente nella memoria pubblica). L’Europa è
irriducibilmente plurale e non può emergere unitariamente che come
un progetto in cui le diversità si mettono assieme. Questo comporta
anche sul piano religioso, che ci sta particolarmente a cuore,
pensare l’Europa come frutto dell’eredità di grandi religioni,
in primo luogo naturalmente il cristianesimo, ma anche come
costruzione segnata intimamente dalla laicità. Intesa come metodo
di convivenza alta e feconda, nella fraternità e nel dialogo, tra
religioni, filosofie, convinzioni diverse. Da cattolici democratici,
questo ci stimola a trovare modo di investire la fede nella ricerca
comune di una approssimazione sempre più forte ai valori profondi
dell’umanità europea e mondiale. L’Europa può quindi vivere
solo come progetto, che si deve alimentare continuamente, formando
un itinerario originale entro un progetto storico di pace e
fratellanza. L’obiettivo comune sta nel futuro, ma deve essere
raccontato come capace di creare identificazione e coinvolgimento
nel presente. Per rilanciare l’Europa dobbiamo costruire una
presentazione del progetto europeo che sia realistico nel suo
procedere, sostenibile tecnicamente e al tempo stesso convincente in
democrazia (cioè capace di costruire consenso). Occorre tutti
portare il proprio contributo in questo cantiere aperto di nuova e
buona politica.