Francesco Verderami
Corriere della Sera 1 marzo 2014
A Renzi serve la doppia maggioranza per
evitare che in Parlamento si formi la doppia opposizione, vissuta dal
premier come un’autentica minaccia. Ecco il motivo che l’ha
indotto a stringere l’intesa sulle riforme con Berlusconi, conscio
che, se Forza Italia si saldasse all’ostruzionismo dei
Cinquestelle, il governo finirebbe per impantanarsi nelle
Aule.
L’agibilità parlamentare è un vero cruccio per il
presidente del Consiglio, già costretto a caricarsi l’onere di
alcuni decreti ricevuti in eredità da Letta e sui quali aveva
espresso giudizi a dir poco negativi. Il «caso salva Roma» è stato
solo il primo intoppo, il resto deve ancora venire. Ma il problema di
Renzi è come assicurare un iter veloce ai suoi provvedimenti, e
certo la riforma dei regolamenti parlamentari — citata nel discorso
per la fiducia — se mai fosse varata non arriverebbe in tempo utile
per i primi mesi del suo governo, i più importanti, perché gli
servono per far dimenticare il peccato originale della «staffetta»
e per lanciarlo verso le Europee.
Il test elettorale di
primavera sarà determinante per il premier, anche per soffocare la
resistenza interna al Pd. Ma un conto sarà arrivarci dovendo
fronteggiare solo Grillo e i suoi parlamentari, altra cosa sarebbe se
anche Berlusconi portasse i suoi deputati e senatori sulle barricate.
Il modo «responsabile» con cui (per ora) il Cavaliere promette di
fare opposizione al governo è legato agli impegni che il premier ha
assunto con il capo di Forza Italia. E ieri in Consiglio dei ministri
molti rappresentanti dell’esecutivo — compresi alcuni democratici
— hanno avuto la netta sensazione che il patto c’è e (per ora)
regge.
Quando il Guardasigilli Orlando ha letto la lista dei
sottosegretari assegnati al suo dicastero, ha chiesto conto a Renzi:
«È rimasto Ferri, allora al Nuovo centrodestra non sono toccati
nove posti, ma dieci». In effetti Ferri — ex esponente di
Magistratura Indipendente — era giunto in via Arenula con il
governo Letta su indicazione di Berlusconi. E al momento della
scissione nel Pdl — pur non aderendo a Ncd — non si era dimesso:
«Sono un tecnico», aveva spiegato. Il neo ministro della Giustizia
pensava tuttavia che fosse stato Alfano a indicarlo, ed è rimasto a
bocca aperta quando si è sentito rispondere da Renzi: «No, è una
roba di Firenze... L’ho scelto io». E infatti, a legger bene, sul
foglio delle nomine c’era scritto in piccolo: «Tecnico/Pd».
Da
quel momento è stato tutto un pissi-pissi nel salone di Palazzo
Chigi, su quale definizione dare all’esecutivo: la più gettonata è
stata «governo delle larghissime intese». È un «governo
politico», ha sorriso il capogruppo di Ncd Sacconi, come a evocare i
gabinetti della Prima Repubblica, quelli dove le scelte venivano
fatte misurando la forza dei partiti e delle loro correnti. Ognuno
ieri si è sentito soddisfatto, compreso Alfano, che ai suoi ha
spiegato come Renzi — completando la squadra — abbia «dato prova
di rispettarci».
I rapporti tra il premier e il titolare
dell’Interno sembrano (per ora) marciare, così raccontano i
ministri centristi presenti al dibattito sull’addizionale della
Tasi. Tema spinoso per Ncd, visto che Forza Italia ha subito iniziato
a sparare sull’aumento delle tasse sulla casa. Ma l’approccio di
Lupi in Consiglio è stato conciliante: «...Mi raccomando però di
spiegarlo bene alla stampa. I comuni che vorranno applicare l’aumento
dell’otto per mille, dovranno aumentare anche le detrazioni». E il
presidente del Consiglio ha condiviso il ragionamento del ministro
delle Infrastrutture.
Ma il vero banco di prova per la tenuta
della maggioranza di governo tra Pd e Ncd arriverà la prossima
settimana alla Camera, quando sulla legge elettorale verrà messa
alla prova la tenuta della maggioranza per le riforme tra il premier
e il Cavaliere. «Sulla legge elettorale Renzi ha già un patto con
noi», assicura Alfano. Sarà, però nel discorso per la fiducia a
Montecitorio, è stato proprio Renzi a dire: «Manterrò gli impegni
con tutti», rivolgendosi ai banchi di Forza Italia. Il nodo è il
famoso emendamento Lauricella, che rimanda l’entrata in vigore
della legge elettorale alla riforma del Senato. Attorno a quella
modifica, che è stata ribattezzata «norma salva-legislatura», già
si notano strane manovre, e la richiesta di farla «comunque» votare
a scrutinio palese.
Non è dato sapere al momento da chi
arriverebbe questa richiesta. È certo che sulla questione la
presidente della Camera Boldrini ha già messo al lavoro gli uffici
di Montecitorio: ma il caso — per quanto tecnico — è anzitutto
politico. Se l’emendamento venisse votato a scrutinio palese,
infatti, Renzi sarebbe costretto a prendere posizione, e dovrebbe
abbandonare l’ambiguità che ha salvaguardato finora la sua
strategia della doppia maggioranza. Il voto a scrutinio segreto,
invece, garantirebbe al premier la
possibilità di affidare il
destino dell’emendamento ai giochi d’Aula. Giochi nei quali
entrerebbe anche di un pezzo di Forza Italia...
Ecco il primio
bivio per Renzi, che ambisce alla doppia maggioranza per non dover
contrastare una doppia opposizione. D’altronde, ora che è
diventato presidente del Consiglio, ha concentrato su di sé la
cabina di regia sul governo e sulle riforme. Perciò starà a lui
sciogliere questi nodi, sapendo che se non ci riuscisse potrebbe
rimanere impigliato in uno dei due.
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