La Stampa 17 marzo 2014
Le scommesse di Renzi, delle quali bisogna oggi prendere
atto, senza che questo implichi uno schierarsi ma piuttosto un tentativo
di capire, sono sostanzialmente quattro.
La prima è di riuscire a cambiare subito qualcosa di
importante nel processo di decisione politico-amministrativa del Paese:
approvare una legge elettorale in poche settimane, mettere a punto
progetti legislativi importanti in pochi giorni, rendere operative
decisioni sempre rinviate nei fatti, come quella della vendita delle
auto blu, passare da un eterno dire a un rapidissimo fare.
Così Renzi si scontra
con la burocrazia centrale dello Stato, che ha oggettivamente – e spesso
con obiezioni sensate – esercitato una funzione di rallentamento,
gelando le premesse delle azioni di cambiamento.
Si scontra anche con procedure parlamentari ossificate che
contemplano l’eterno rimpallo dei disegni di legge tra commissioni e
Camere, sovente snaturati dall’inserimento di piccole modifiche di
interesse particolare, secondo una norma non scritta per cui deve fare
il possibile per dare almeno un «contentino» a tutti. Si scontra infine
con procedimenti consolidati di contrattazione sociale, per cui gran
parte del mondo sindacale e una parte importante del mondo
imprenditoriale anela solo ad avere un «tavolo» su cui discutere e
contrattare, se possibile in maniera permanente.
Si tratta di una scommessa molto ardita perché prevede il
rovesciamento del gattopardismo che ha governato a lungo la politica e
l’economia italiana, secondo il quale bisogna cambiare
(superficialmente) tutto perché tutto resti (sostanzialmente) com’è.
Sembra di capire che, per Renzi, invece tutto possa restare
superficialmente com’è (i patti con l’Europa devono essere rispettati,
le procedure parlamentari seguite) a condizione che tutto nella sostanza
subisca un radicale rinnovamento.
La seconda scommessa, senza la quale l’introduzione delle
novità procedurali sarebbe di poco conto, è di riuscire a cambiare i
comportamenti economici degli italiani. Quando non possono promettere
nuove spese, i politici devono esser capaci di suscitare nuovi modi di
agire. Il programma del governo ha un senso se gli italiani che ne hanno
le possibilità superano la paura di spendere, e recuperano una parte
dei consumi non fatti negli ultimi anni; se le imprese italiane
scacciano la paura di investire e le banche italiane la paura di
finanziare quegli investimenti. Il tutto darebbe una sostanziale
copertura economica ai programmi di riduzione delle imposte, mentre la
copertura puramente contabile oggi potrebbe essere carente.
La terza scommessa, che si è venuta delineando solo negli
ultimi giorni è quella di modificare, oltre ai comportamenti degli
italiani anche gli atteggiamenti delle istituzioni europee, a lungo
ingessate in un disperante burocratismo. Non è chiaro in che direzione
Renzi voglia spingere l’Europa, ma di certo ha mostrato di volerla
allontanare da un atteggiamento puramente ragionieristico per cui a un
Paese delle dimensioni dell’Italia, con un movimento di cassa
dell’amministrazione pubblica di 700-800 miliardi di euro si contestano
sforamenti minimi, pari a 2-3 miliardi. Con la Francia, la Commissione
europea non si è comportata e non si comporta così.
La quarta scommessa di Renzi è quella su se stesso. E’
difficile dire se la sua promessa di ritirarsi in caso di non
realizzazione degli obiettivi sia solo un artificio retorico ma è
sicuramente legittimo prenderla per buona. Anche in questo caso si è di
fronte a una rottura di comportamenti garantisti per i quali il ritiro
dalla politica non è contemplato, la condizione di «uomo politico» viene
considerata irreversibile, separata dalla normale realtà del Paese.
Non è affatto detto che Renzi abbia successo. Il primo
Berlusconi fece anche lui le sue scommesse, sperò che le piccole imprese
e i lavoratori autonomi, sgravati con i condoni da una parte del peso
del fisco, avrebbero proiettato il Paese in un esaltante futuro di
crescita. E’ andata decisamente male, e la conseguenza è stata un
ventennio di stagnazione. La scommessa di Renzi è diversa perché, oltre
che socialmente trasversale, è basata, come si è detto sopra,
sull’ipotesi di un profondo mutamento dei comportamenti; può essere
sfavorevolmente influenzata, oltre che da un rifiuto viscerale di una
gran parte degli italiani a uscire da un clima di contrattazione
permanente, anche da un’evoluzione internazionale che sta facendo
soffiare sull’Europa nuovi venti di guerra fredda e scoraggia i grandi
cambiamenti. Se la perde, Renzi farebbe certo bene ad andare a casa. Il
pericolo potrebbe essere che con lui ci vada tutto il Paese.
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