Michele Ainis
Corriere della Sera del 22/03/14
C’è una desaparecida nel turbine
della nostra vita pubblica: la giustizia. Da quando il nuovo
esecutivo ci ha svegliati dal letargo, saltiamo come picchi sui rami
più diversi — la riforma costituzionale, e poi quella del lavoro,
e poi la legge elettorale, la spending review , il fisco, la
burocrazia. E il motore in panne della macchina giudiziaria? A quanto
pare non trova più meccanici. Curioso, dato che negli ultimi
vent’anni la politica l’aveva sventolato come il maggiore dei
problemi. Doppiamente curioso, proprio adesso che l’astro di
Berlusconi parrebbe declinante, sicché i partiti potrebbero
ragionarci senza astio, senza secondi fini. Ti viene il sospetto che
tutto quel vociare fosse solo un gioco di Palazzo. Come se non
esistesse viceversa un nesso fra la produttività economica e quella
giudiziaria, come se gli italiani non fossero orfani d’uno Stato
che sappia distribuire i torti e le ragioni.
E allora stiliamo
un promemoria, dal momento che la politica ha perso la memoria. Anche
perché la malattia peggiora, insieme al nostro umore. Bruxelles ci
ha appena informati che in Italia i processi civili sono i più lenti
d’Europa, se si eccettua Malta. Su dati del 2012, la loro durata
media è di 600 giorni; erano 500 nel 2010. Dunque il triplo rispetto
alla Germania, oltre il doppio rispetto a Francia e Spagna. In
compenso ne aumentano i costi (6% in più). A sua volta, la Banca
Mondiale ci colloca al 160º posto (su 185 Paesi) per la tutela
giurisdizionale dei contratti. Per forza, con 5,4 milioni di processi
pendenti, e per lo più rinviati alle calende greche (7 su 10). O con
la nostra giostra d’appelli e contrappelli, quando altrove
l’appellabilità delle sentenze è quasi un’eccezione. D’altronde
negli Usa la Corte suprema riceve 80 casi l’anno, da noi la
Cassazione ne assorbe 80 mila. Ma le riforme organizzative
dell’ultimo triennio hanno sparato a salve: il filtro sulle
impugnazioni si è reso funzionante nel 4% dei casi a Milano, nell’1%
a Roma.
Tuttavia non c’è solo una crisi d’efficienza. È in
crisi l’eguaglianza, perché 130 mila prescrizioni l’anno sono un
salvagente per i ricchi, per chi possa permettersi un avvocato che sa
come tirarla per le lunghe. Ed è in crisi la credibilità dei
giudici. Succede, quando la magistratura è divisa in fazioni, che
attraverso un’acrobazia linguistica si definiscono «correnti».
Quando ogni corrente fa correre i propri correntisti, lottizzando il
Csm, distribuendo posti e prebende. Quando alla Procura di Milano
divampa uno scontro di potere, di cui leggiamo il resoconto in questi
giorni. Quando certi magistrati sono più loquaci d’una suocera,
nonostante gli altolà di Napolitano. Quando la loquacità li
ricompensa con una candidatura alle elezioni, sicché il pubblico
ministero conquista un ministero pubblico. Quando infine nessuno paga
dazio, quale che sia il suo vizio: nel 2013, su 1.373 procedimenti
disciplinari, ne è stato archiviato il 93%, e solo in 5 casi è
intervenuta la richiesta d’una misura cautelare.
Da qui un
paradosso: il potere irresponsabile diventa poi meno potente, giacché
perde l’auctoritas , la fiducia popolare. Ma da qui anche un
circolo vizioso: l’inefficienza genera diffidenza, la diffidenza
genera il rifiuto d’accettare i verdetti giudiziari, il rifiuto
genera un fiume di ricorsi, i ricorsi generano nuova inefficienza.
Dev’esserci un modo, tuttavia, di spezzare la catena. Magari
cominciamo ricordando che è questo il ferro al quale siamo
incatenati.
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