Ernesto Galli della Loggia
Corriere della sera 30
marzo 2014
Ancora una volta il
Partito democratico è chiamato a scegliere. D’altra parte, se ci
si pensa, è proprio questo il significato più generale dell’arrivo
sulla scena di una figura come quella di Matteo Renzi: mettere il Pd
con le spalle al muro, obbligare la cultura postcomunista a fare
apertamente e fino in fondo una scelta a favore di una politica
realmente riformatrice. Politica riformatrice progressista,
naturalmente, considerando la natura e la storia dei democratici. Ma
che in Italia — a causa della latitanza storica di una vera destra
liberale: vedasi il fallimento di Berlusconi e di tutti quelli per
vent’anni intorno a lui — non può non avere, necessariamente,
anche caratteri e contenuti diciamo così non specificamente
progressisti, non specificamente di sinistra, bensì dettati dalla
necessità di dare spazio a efficienza, merito, razionalità,
economicità: dunque, in un senso molto lato, anche caratteri e
contenuti liberali. Insomma, così come nella prima Repubblica la
Democrazia cristiana svolse un ruolo di supplenza verso la destra,
accogliendone molte istanze e punti di vista, e così costruì la
propria egemonia, la stessa occasione e lo stesso compito
sembrerebbero oggi toccare al Pd. Ma per ragioni ben note la storia
ha dato al Pd un interlocutore particolare che la Dc non aveva: il
ceto degli intellettuali. I quali, inclini in genere a un certo
radicalismo, non impazziscono certo per la categoria delle riforme in
quanto tale, specie poi quando queste non sono in armonia con il loro
punto di vista o ancor di più quando contrastano con i loro feticci
ideologici. Ed ecco infatti un nutrito e autorevolissimo gruppo di
essi (da Gustavo Zagrebelsky a Stefano Rodotà, da Roberta De
Monticelli a Salvatore Settis) scendere in campo venerdì scorso con
un vibrante appello pubblicato sul Fatto Quotidiano contro le riforme
costituzionali proposte dal Pd di Renzi. Altro che riforme: si
tratterebbe nei fatti, scrivono i nostri, di «un progetto di
stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento
esplicitamente delegittimato (...) per creare un sistema autoritario
che dà al presidente del Consiglio poteri padronali». Con il
monocameralismo, ma in realtà «grazie all’attuazione del piano
che era di Berlusconi», nascerebbe «l’Italia di Matteo Renzi e di
Silvio Berlusconi», «una democrazia plebiscitaria (...) che nessun
cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può
desiderare». Questo il tono e questi gli argomenti. Che per la loro
qualità non meritano commenti ma solo un’osservazione: che razza
di Paese è quello in cui le migliori energie intellettuali non
esitano a tradurre la loro legittima passione politica in pura
faziosità, ignorando decenni (decenni!) di studi, di discussioni, di
lavori di commissioni parlamentari, che hanno messo a fuoco in
maniera approfonditissima i limiti del nostro impianto costituzionale
di governo? E dunque la necessità di modificarlo spesso proprio nel
senso che oggi si discute? È ammissibile che tuttora si possa
sostenere che avere anche in Italia un capo dell’esecutivo dotato
dei poteri che hanno tanti suoi omologhi in Europa, o una sola Camera
rappresenti l’anticamera del fascismo? In verità la scelta a cui
l’appello degli intellettuali radicali chiama il Partito
democratico è una scelta cruciale per la sua identità di partito
riformista, ma fin qui sempre rimandata: e cioè tracciare sulla
propria sinistra una netta linea di confine e di deciso contrasto
ideologico-culturale. Per decenni il Partito comunista unì a una
pratica in larga misura socialdemocratica una benevola tolleranza nei
confronti del più multiforme estremismo teorico, verso
rivoluzionarismi di varia foggia e conio, verso le critiche
radicaleggianti di ogni tipo all’ordine borghese. Si poteva essere
iscritti al Pci e insieme essere luxemburghiani, filomaoisti,
marcusiani, stalinisti. Fino a un certo punto si potè perfino
guardare con qualche simpatia alla lotta armata: fino a quando cioè
il Partito comunista stesso — resosi conto del pericolo mortale che
ne veniva a lui e alla Repubblica — decise di reagire con brutale
fermezza. Ma fu l’unica volta. Per il resto questa benevola
tolleranza non solo appariva politicamente innocua (tanto a governare
erano sempre gli altri) dando per giunta l’idea di un partito
aperto che sapeva rendersi amici gli strati intellettuali ma, cosa
più importante, consentiva pure di fare regolarmente il pieno dei
voti a sinistra. Il Partito democratico dovrebbe capire che per lui
però le cose stanno in modo affatto diverso. Oggi specialmente,
quando è al governo in una situazione di crisi grave del Paese e con
una responsabilità mai così preponderante e diretta. È questa una
responsabilità che dovrebbe implicare alcune ovvie incompatibilità.
Tra le quali, per l’appunto, l’incompatibilità tra una linea
riformatrice di governo e il sinistrismo radicaleggiante caro a non
pochi intellettuali, sempre pronto, peraltro, all’agitazione
piazzaiola o a divenire carburante per qualche formazione goscista.
Un sinistrismo che dovrebbe obbligare il Pd, se non vuole alla fine
restarne vittima, come altre volte gli è capitato, a fare muro
esplicitamente, a uscire allo scoperto senza mezzi termini, e magari
a contrattaccare; non già a tacere. Come invece tace singolarmente,
ad esempio, l’Unità di ieri, la quale, invece che spendersi in
qualche difesa delle riforme costituzionali del governo preferisce
occuparsi di riservare una gelida accoglienza alle ragionevolissime
critiche mosse dal governatore Visco ai vari corporativismi italiani
(inclusi quelli dei sindacati), lasciandone il commento ai sarcasmi
caricaturali di Staino. Ma non è così, non è con questa mancanza
di chiarezza, mi pare, che ci si può inoltrare in quel cammino sul
quale tanta parte dell’opinione pubblica oggi aspetta di vedere
avanzare il partito di maggioranza.
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